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martedì 4 giugno 2013

I misteri del Monte dei Cappucini

L’altura boscosa del Monte dei Cappuccini, che dall’alto dei suoi 283 metri (certificati dalla misurazione satellitare del 1991) impone la sua vigile presenza alla città quietamente adagiata ai suoi piedi, assomiglia ad un avamposto di quel sistema collinare punteggiato di Ville di delizie e Vigne della nobiltà torinese che sembra assecondare il corso sinuoso del Po seguendolo fedelmente da Moncalieri sino a San Mauro Torinese. La posizione di dominio sul fiume ha attratto da sempre l’interesse di coloro che esercitavano il potere sulla piana torinese, come è chiaramente attestato sia dalle tracce di pratiche religiose pagane, confermate dal rinvenimento in loco di alcuni frammenti marmorei che, secondo lo storico di Corte Emanuele Tesauro, deriverebbero dalla frantumazione di un’ara dedicata al culto di Giove, sia dal ritrovamento di flebili segni che rivelerebbero la presenza, in età romana, di postazioni fortificate. La vocazione militare e quella religiosa s’intrecciano dunque nella storia del Monte sin dall’antichità. La funzione di controllo sul transito di persone da una sponda all’altra del fiume, facilmente esercitabile dall’altura, è testimoniata dalle fonti che riconducono alla responsabilità del sacerdote che amministrava la chiesa di San Marco e Leonardo, alle pendici del Monte, il compito di sovrintendere al servizio di traghettamento, che rimase attivo sino alla costruzione del ponte ligneo eretto nel 1037 in corrispondenza del rilievo boscoso. Il riconoscimento dei diritti feudali insistenti sull’area del Monte si estendeva anche al controllo della struttura difensiva localizzata sulla sommità dell’altura, in funzione di presidio sul transito fluviale, consacrata nelle fonti alternativamente con il nome di “Bastia”, “Bastida”, “Motta di Torino” o “Castelletto”. Della titolarità di tali poteri si trova traccia in un diploma imperiale del novembre 1248 che formalizza la concessione dei diritti sul Monte e sulla “Bastia” a Tommaso II Conte di Savoia, in veste di vassallo di Federico II. A seguito della costruzione di un ponte più a valle e della fortificazione del castello di Porta Fibellona, nel Quattrocento la rilevanza militare e commerciale del Monte si affievolisce e i Savoia concedono l’esercizio dei relativi diritti feudali a notabili locali dietro il pagamento di somme di danaro. Prima che si organizzasse un sistema di prevenzione più efficace degli incendi, la “Bastia” ospitava anche una sentinella che sorvegliava la città dall’alto dando l’allarme, in caso d’avvistamento d’un principio di fuoco, alla sottostante Rocca (da cui Via della Rocca), affinché si provvedesse allo spegnimento. L’atto di acquisto del Monte (1583), sottoscritto dal Duca Carlo Emanuele I, e la susseguente concessione dello stesso alla comunità dei Cappuccini torinesi ne consacra definitivamente la vocazione religiosa. Nel 1584, infatti, si diede l’avvio alla fabbrica, dapprima affidando i lavori al tardomanierista Giacomo Soldati e, successivamente, al Primo Architetto Ducale, Ascanio Vittozzi, che conferì all’opera quel tipico slancio verticale che caratterizza il complesso innestando sulla planimetria fortemente accentrata voluta dal Soldati un tamburo ottagonale con la funzione di sorreggere la cupola. L’aggiunta, decisa per ragioni di stabilità nel 1802, di un coronamento in muratura che copre le forme della cupola appesantì la struttura compromettendo il forte verticalismo originario. Il Seicento, secolo cruento, popolò invece il Monte di presenze sovrannaturali imprimendogli l’impronta del mistero. Nel 1619, la Principessa Cristina di Borbone, figlia del Re di Francia Enrico IV, sposò il Principe di Piemonte Vittorio Amedeo, che alla morte del padre acquisì il titolo ducale, rappresentando il segno tangibile del passaggio del Piemonte dalla sfera d’influenza spagnola a quella francese. Infatti, con Cristina il Ducato s’inserì nel contesto della contrapposizione armata tra Francia e Spagna, tentando di preservare la propria sovranità e contemperando le tendenze filo-spagnole fatte proprie, in ossequio alla politica del padre Carlo Emanuele I, da Tommaso di Carignano e dal Cardinale Maurizio, fratelli di Vittorio Amedeo I, con la spiccata propensione filo- francese che resse l’azione politica del Duca e della consorte. Vittorio Amedeo I morì nel 1637, colto da malore dopo un banchetto a Vercelli, dando adito a discussioni infinite sulle reali cause della morte, dalle fonti ufficiali attribuita alle conseguenze di una malaria trascurata e dagli appassionati di congiure di palazzo ad un avvelenamento occorso durante la festa e confermato, si sostiene, dalla somiglianza di sintomi accusati dal Marchese Villa e dal Conte di Verrua, il quale in effetti passò a miglior vita a pochi giorni di distanza dal suo Duca. I notabili che assistettero alla morte del sovrano ne certificarono altresì la volontà di riconoscere a Cristina di Francia la Reggenza del Ducato sino a che Francesco Giacinto, primogenito della coppia, o il più forte Carlo Emanuele (che poi divenne II) non avessero raggiunto la maggiore età. Cristina così resse il governo del Piemonte in nome e per conto del figlio, acquisendo il titolo di “Madama Reale”, avvalorando in tal modo la pretesa del marito di fregiarsi del titolo regio. Lo stesso Duca s’era infatti proclamato pretendente legittimo al trono reale di Cipro, lasciato formalmente in eredità ai Savoia da Anna di Lusignano, figlia di Janus, Re di Cipro, Gerusalemme e Armenia, a seguito del suo matrimonio con Ludovico di Savoia Acaia. Le ostilità tra l’esercito franco-sabaudo e quello spagnolo si manifestarono presto, approfondendo le divisioni politiche che contrapponevano la Madama Reale ai due cognati, i principi filo-spagnoli Tommaso e Maurizio. I Torinesi ripartirono equamente i loro consensi dando vita a due fazioni, i Principisti e i Madamisti, che rendevano riconoscibile apertamente la loro appartenenza politica dal colore della coccarda che veniva esibita: azzurra quella dei Principisti, bianca e azzurra quella dei Madamisti. La capitale, temporaneamente invasa dalle truppe spagnole, patì nel 1640 un lungo assedio portato dai Francesi comandati dal generale D’Harcourt. Nel maggio di quell’anno, la soldataglia francese cominciò a penetrare in città seguendo il corso del Po e giungendo in prossimità del borgo di barcaioli che sorgeva accoccolato tra il fiume e la collina, ombreggiato dalla sagoma protettiva di Santa Maria del Monte. Circa 400 popolani, terrorizzati dalla ferocia francese acuita dalla tenace resistenza opposta dai Torinesi alla loro avanzata, cercarono rifugio nel Convento ma l’idea di sfuggire alle violenze del nemico ponendosi al riparo d’un luogo sacro si rivelò illusoria. La masnada di soldati francesi, divelto il portone d’ingresso alla Chiesa, prese a trucidare chiunque capitasse a tiro, vecchi o bambini, risparmiando soltanto i frati che assistevano impotenti al massacro. Un soldato s’avvicinò all’altare e dissacrò il tabernacolo impadronendosi della pisside d’argento: d’improvviso una fiammata si propagò dall’altare ustionando il viso del soldato sacrilego e mettendo in fuga lui e i suoi compari di saccheggio. Quell’evento fu considerato opera di una forza soprannaturale e ne fu anche ufficialmente riconosciuta la natura miracolosa, ma non mancano gli scettici. Antonio Manno, nel suo Diario dell’Assedio del 1640, ne contesta l’imputazione all’intervento divino ravvisando invece la causa della fiammata nello scoppio di una fiasca di polvere da sparo. Carlo Botta, storiografo filo- francese, si rifiuta di riconoscere la natura miracolosa dell’evento sostenendo che un fatto di tale impatto psicologico, se fosse stato vero, avrebbe provocato la fuga dell’intero esercito francese da Torino e non solo di pochi soldati indisciplinati e sanguinari. Il ricordo del “Miracolo del Monte”, segno simbolico dell’ira divina scatenata contro la tracotanza sacrilega della soldataglia francese, si accompagna ad altre circostanze misteriose tra le quali spicca per clamore la manifestazione occasionale di una presenza impalpabile che, aleggiando attorno al Monte, si mostra alla percezione visiva delle coppie di innamorati che qui trovano ispirazione romantica. E’ probabile che, osservandoli, riviva i terreni tormenti d’amore: è il Conte Filippo San Martino d’Agliè, poeta, musicista e coreografo, tanto apprezzato per le sue doti diplomatiche e di comando da essere nominato Governatore della Cittadella di Torino nel 1638. La lontananza di Vittorio Amedeo I dalla consorte facilitò l’avvicinamento sentimentale tra la Madama Reale ed il colto esponente della nobiltà piemontese, facendo presagire alla fantasia pettegola dei cortigiani l’avvio di un’appassionante storia d’amore. Nel 1989, durante alcuni lavori di restauro, si scoprirono nel giardino del convento i resti mortali d’un uomo che riposavano accanto a due fornelli di pipa in ceramica bianca d’ottima fattura che fungevano da corredo funerario rimandando simbolicamente ad una passione coltivata in vita dal defunto. Quei resti sono stati identificati come appartenenti al Conte Filippo San Martino d’Agliè e la presenza dei due fornelli di pipa ne avvalora l’attribuzione, richiamando alla memoria il famoso ballet de cour intitolato “Il tabacco”, composto dal nobiluomo e messo in scena il I marzo 1650. L’intreccio della trama è completamente asservito all’esaltazione delle virtù del tabacco, attraverso il racconto degli abitatori di un’isola esotica che ne tessono gli elogi evocando in scena vari personaggi in rappresentanza delle diverse nazioni che hanno contribuito alla diffusione dell’uso del tabacco, pratica tanto amata dal Conte da essersi fatto seppellire accanto a due fornelli di pipa…
Anche il basamento del Monte nasconde la traccia di eventi lontani che, occasionalmente, emergono dalle nebbie del passato affacciandosi alla nostra memoria. La strada che conduce alla sommità doveva essere in origine costellata di piloni votivi a ricreare una Via Crucis lungo la salita ma quel progetto non andò a buon fine. Si pose mano, invece, al rifacimento del percorso rendendolo percorribile alle autovetture e proprio grazie alla realizzazione del cantiere di scavo, riaffiorarono dalla spessa coltre di terra che li aveva sepolti i resti mortali di decine di persone che, probabilmente, caddero vittima delle pestilenze che attanagliarono il Piemonte tra la fine del Cinquecento ed il 1630, riducendo sensibilmente la popolazione e costringendo le autorità a decidere se bruciare i cadaveri degli appestati o se accatastarli in fosse comuni, cospargendoli di calce viva. La seconda opzione prevalse e di quell’antica piaga che lacerò la città decimandone gli abitanti, ogni tanto, affiora un piccolo frammento invitando l’animo a prestare ascolto all’invocazione dolorosa di lutti e sofferenze che sopravvivono ai secoli.   



                      

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