Analizzando il rapporto tra la Sindone e i Templari, una delle teorie di cui occorre dar conto collega il lenzuolo funerario al Graal. Il termine Graal deriva dal latino medievale “gradalis” che significa vaso o recipiente per bere. Una tradizione consolidata identifica il Graal con la coppa usata da Cristo durante l’Ultima Cena, il che si attaglierebbe alla rappresentazione classica dei Templari ritratti come depositari delle principali suppellettili venute a contatto con Gesù durante la sua esistenza. Un altro filone leggendario interpreta il Graal come il recipiente adoperato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue versato da Cristo in conseguenza dei patimenti che gli furono inflitti dai Romani durante la Passione. La prima tesi contrasta con la considerazione di carattere culturale che riporta il concetto di “coppa rituale” alla tradizione celtico-germanica mentre la seconda interpretazione, che riconosce nel Graal la coppa con cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo, è coerente con le norme contenute nei due libri del Pentateuco ebraico, il Deuteronomio ed il Levitico, che codificano precetti riguardanti le pratiche funerarie e che prescrivono, in particolare, di raccogliere il sangue delle vittime di morte violenta affinché non vada disperso. Infatti, il “sangue di vita”, per gli Ebrei, è dimora del soffio vitale instillato da Dio nel corpo dell’uomo plasmato durante la creazione (“Ed il Signore Dio fece l'uomo dalla polvere della terra ed alitò un soffio vitale nel suo naso”, Genesi 2:7). La figura di Giuseppe d’Arimatea è stata manipolata dalle varie tradizioni che si sono succedute attorno al concetto di Graal e che alimentarono il ciclo letterario celtico-francese sviluppatosi tra il XII ed il XIII secolo, dando forma a poemi cavallereschi come “il racconto del Graal” di Chrètien de Troyes. Secondo la versione provenzale, Giuseppe (o il cognato Hebron) sarebbe sbarcato nei pressi di Saintes-Maries-de-la-Mère, culle coste del meridione francese, consegnando il calice ed il suo prezioso contenuto ai sacerdoti druidici del luogo e rappresentando simbolicamente l’incontro-innesto fra il proto-cristianesimo e le radici celtiche della Gallia. Che il concetto di coppa rituale sia connesso alla tradizione germanica è confermato dalla vicenda di re Alboino nella ricostruzione offerta dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Alboino, indossando le vesti di comandante militare e capo politico, guidò dalla Pannonia (l’odierna Ungheria) all’Alta Italia e al Piemonte il raggruppamento di aggregati clanici che le fonti definiscono con il termine etnicamente qualificante di “Longobardi”, attribuendo una precisa caratterizzazione identitaria ad un ammasso frammentato di nuclei tribali (una “nebulosa etnica segmentata”) che presentavano le ascendenze etniche più disparate ed erano accomunati soltanto dall’intento predatorio e dalla sottomissione all’elemento numericamente preponderante, che era di matrice longobarda. Basti pensare che Agilulfo, duca di Torino acclamato rex Langobardorum nel 591 per essere stato scelto come marito dalla principessa bavara Teodolinda, vedova del re Autari, viene menzionato da Paolo Diacono come “Turingio de Taurino” alludendo al fatto che la maggioranza delle fare longobarde stanziate in area torinese era composta da Turingi. Prima di incamminarsi verso Occidente, Alboino guerreggiò contro i Gepidi piegando la resistenza del rivale, il re Cunimondo, e invaghendosi della figlia Rosamunda che decise di prendere in moglie. Stando alla versione ufficiale, deformata dai ricami leggendari, Alboino contravvenne alle consuetudini che reggevano da tempo immemorabile il vivere comune presso i Longobardi e costrinse Rosamunda a brindare usando come calice il cranio del padre, svuotato dalle parti molli affinché prendesse la forma e la funzione di una coppa rituale. Era pratica comune presso i Germani che il sovrano vittorioso si impadronisse della testa del rivale sconfitto ostentandola come trofeo e trasformandone il cranio, intagliato e lavorato, in una coppa con cui banchettare. Il senso sotteso al macabro gesto è chiaramente decifrabile dato che si fondava sulla credenza che certe qualità appartenute al defunto, l’attitudine al comando, il carisma personale ed il prestigio politico, unitamente alla forza fisica, si trasmettessero materialmente alla controparte vittoriosa attraverso l’atto simbolico del bere usando come calice il cranio dell’avversario. In questo modo, si sarebbe realizzato un travaso di energia dall’uno all’altro ed il vincitore avrebbe tratto da quell’assorbimento di forza vitale la legittimazione all’esercizio del comando sulla popolazione sottomessa. Alboino, però, infranse il codice comportamentale al quale si sarebbe dovuto attenere obbligando la moglie a compiere in vece sua l’insano gesto di maneggiare il cranio del padre ed esponendosi alla vendetta di Rosamunda che, nel 572, congiurò contro di lui progettandone l’assassinio in combutta con l’amante. La scrittrice statunitense Margareth Starbird, accantonando l’interpretazione classica che accosta il Graal al calice usato da Cristo, propone una lettura diversa scindendo il termine completo che definisce la coppa, “Sangraal”, nel francese antico “Sang Raal” che significa “sangue reale”. La tesi linguistica allude alla letteratura encomiastica formatasi attorno alle origini della monarchia francese con il proposito di giustificare la pretesa di superiorità che il re di Francia, il Re Cristianissimo, vantava nei confronti degli altri sovrani cristiani d’Europa sostenendo la derivazione diretta del lignaggio merovingio, cui appartenevano i primi re Franchi, dalla stirpe regale ebraica di David, padre di Salomone. Il sangue di re David sarebbe stato portato in Francia da Maria Maddalena, la donna che asperse Gesù di unguenti profumati prefigurandone la fine. La fantasiosa ipotesi non trova l’appoggio del sindonologo torinese Baima Bollone che ha prospettato come plausibile l’identificazione del Graal con la cassetta reliquiario che avrebbe protetto la Sindone dalla tante avversità affrontate durante i viaggi, consentendone la conservazione. Bollone si inserisce così nel filone di pensiero che fa risalire ai monaci del Tempio il possesso del telo sindonico nel periodo di tempo compreso tra la data del secondo sacco di Bisanzio (12-15 aprile 1204) e la metà del Trecento, quando è attestata l’esposizione del lenzuolo all’interno della collegiata di Lirey, nella regione francese della Champagne. Come appiglio probatorio di questa tesi è stata addotto il ritrovamento di un pannello ligneo intagliato e dipinto, datato al 1280, che è riaffiorato dalle macerie della contro-soffittatura di un cottage, parte integrante della mansio templare inglese di Templecombe, colpito dallo scoppio di un ordigno esplosivo durante la seconda guerra mondiale. Templecombe (da “Comba Templariorum”, letteralmente valle dei Templari – da segnalare è la coincidenza con il vocabolo piemontese “còmba”, ricalcato sulla radice di un termine celtico, che significa avvallamento) è una cittadina del Somerset, antica sede di un priorato templare. Il pannello rivela l’appartenenza all’ambito templare nell’esibizione di un repertorio iconografico che riflette l’impronta del Tempio, come la cornice a quadrifoglio, ma l’elemento chiave che ha attribuito alla lastra lignea il valore di indizio probatorio capace di attestare il possibile transito sindonico nelle mani dei Templari è rappresentato dall’effige umana che compare tratteggiata da mano inesperta sulla superficie del pannello. I tratti somatici del volto, malgrado la fattura grossolana e i contorni delineati con approssimazione, sembrano ricalcare i lineamenti facciali dell’immagine sindonica torinese. Inoltre, si sono riscontrate tracce che indicherebbero l’installazione di una serratura, probabilmente montata per richiudere la cassetta, e tale constatazione avvalora ulteriormente la tesi di chi interpreta il pannello di Templecombe come l’anta di un reliquiario ligneo fabbricato in ambito templare per la conservazione di una reliquia importante, legata alla figura di Cristo, che non è inverosimile identificare con la Sindone, forse ripiegata in otto parti o quattro doppi (tetradìplon), coerentemente con la tecnica di conservazione descritta dalle fonti che permetteva di esporre alla vista dei fedeli soltanto il viso. Un’altra notazione rafforza l’impianto probatorio: Templecombe non dista molte miglia dalla fortezza-prigione dove fu incarcerato, nel 1342 e nel 1351, il nobile francese Goffredo di Charny, dopo essere stato catturato in battaglia dagli Inglesi. Charny è segnalato dai dati in nostro possesso come proprietario del telo sindonico almeno a partire dal 1353, anche se permane l’incertezza riguardo alle modalità attraverso le quali la Sindone sarebbe pervenuta a lui, forse attraverso la moglie Jeanne de Vergy (discendente di quell’Othon de la Roche, duca d’Atene, accusato del trafugamento della Sindone dalla chiesa di Bisanzio dov’era periodicamente esposta ai fedeli) o forse tramite vie traverse, acquisizioni sul mercato clandestino delle reliquie o contatti non acclarati con la nomenclatura templare. La lettura sindonica del pannello di Templecombe, se confermata, rafforzerebbe la posizione di chi identifica il Graal con la cassetta reliquiario della Sindone, inserendosi nel filone tradizionale che rappresenta i Templari come scopritori e conservatori di reliquie, soprattutto di quelle che documentano la realtà del passaggio terreno di Cristo. Inoltre, dall’analisi del contesto storico si evince un altro elemento che concorre a chiarificare il quadro: tra le accuse fabbricate ad arte contro i Templari dalla commissione d’inchiesta insediata per volere di Filippo IV il Bello, risalta per la gravità dell’addebito la notizia di pratiche idolatriche tributate dai monaci all’indirizzo di una misteriosa rappresentazione icastica nota come “Bafometto”. Accanto ai numerosi passaggi estratti dalle carte processuali per ricostruire l’esatta natura di questo idolo barbuto che compariva come presunto protagonista di riti misteriosi celebrati dai monaci nel segreto delle loro mansiones, emerge per rilevanza l’opinione espressa da coloro che accusavano i Templari non soltanto d’essersi accostati all’Islam, recependo pratiche “esotiche” come l’abitudine di pregare chinandosi sino a toccare terra con la fronte, ma anche di aver formato un circolo di adoratori del diavolo, il gran separatore (dal greco “diaballein”, separare) che boicotta con ogni sorta di macchinazione il piano salvifico voluto da Dio per l’uomo. Il Bafometto è stato letto, nel contesto di quest’accusa, come prova del satanesimo templare. Infatti, non si sarebbe trattato d’altro che di una rappresentazione, magari un po’ caricaturale, delle fattezze del demonio, al quale si indirizzavano pratiche cultuali all’interno del Tempio. Si tenga conto che, per la Chiesa delle origini, erano soltanto tre i peccati che compromettevano la salvezza individuale: l’omicidio, l’adulterio e l’apostasia, cioè l’abiura della fede cristiana, che si poteva manifestare anche nell’indulgere a pratiche idolatriche. L’idolatria, inoltre, era considerata dai Padri della Chiesa come una forma di demonolatria perché l’idolo, cioè la rappresentazione concreta dell’astratto numen pagano, era concepito come una forma di mascheramento usata dal diavolo per convogliare su di sé le attenzioni del fedele, distogliendolo dalla contemplazione di Dio. Decisivo nel condannare l’idolatria fu l’episodio biblico del vitello d’oro, fabbricato dal popolo d’Israele che tradì la fiducia di Dio approfittando dell’assenza di Mosé. Tributare culto ad un idolo significava non soltanto esporsi al rischio della dannazione eterna e alle sanzioni penitenziali comminate ai colpevoli dalla Chiesa ma anche permettere al diavolo di impossessarsi della propria anima, rendendo indispensabile sottoporre la persona che era caduta nella trappola ordita dal demonio a pratiche di carattere esorcistico volte a liberarne il corpo dalla possessione. Dunque, aldilà della rappresentazione del Bafometto come maschera del demonio, come testa di donna o come idolo barbuto, il merito della condanna inflitta ai Templari non mutava: erano demonolatri perché adoravano un idolo. E’ ovvio che il significato del Bafometto sia stato travisato dagli avversari del Tempio, come è stato acclarato dai ricercatori, oggi propensi a considerarlo come una delle tante reliquia di cui i monaci si appropriarono durante la permanenza in Terrasanta (Centini ritiene probabile la sua identificazione con il teschio di Santa Eufemia). Proprio il presunto legame che s’instaurò tra i Templari e la Sindone potrebbe aiutarci ad interpretare la reale natura del Bafometto. Infatti, non è inverosimile pensare che il Bafometto fosse la rappresentazione di un viso umano, maliziosamente scambiato dai detrattori del Tempio per un idolo, ma in realtà identificabile con un’immagine acheropita, cioè non fatta da mano umana, del Cristo. Se questa intuizione fosse confermata, si potrebbe concludere favorevolmente alla identificazione del Bafometto con la Sindone torinese. La relazione tra la Sindone, il Bafometto e la cassetta reliquiario di Templecombe potrebbe trovare un momento di sintesi e di conferma proprio a Torino, se si interpretasse la statua della Carità (o della Religione) che sorge dirimpetto la chiesa della Gran Madre di Dio, sul lato destro della scalinata antistante il tempio supponendo di discenderla o sul lato sinistro supponendo di fronteggiare il prospetto principale dell’edificio, come un concentrato di segni di non facile decifrazione che sarebbero stati sistemati in quel punto per indicare al sapiente, desideroso di scoprire il nascondiglio del Graal, il cammino da intraprendere per raggiungere la meta, sia che si tratti di un oggetto tangibile sia che si tratti di uno stadio superiore di conoscenza. Nessuno ha ancora appurato se sia lo sguardo della statua, fisso sull’orizzonte definito dalla cornice maestosa della catena alpina, o l’atteggiarsi della figura femminile, che è la personificazione della Carità, a fornire indizi sul tragitto da intraprendere per ritrovare il Graal ma l’idea che Torino possa accogliere anche questo importante segno legato alla vita di Cristo, oltre a quella Sindone che lo avvolse cadavere, assistendo alla sua Resurrezione, non è priva di fondamento razionale. Ciò che è sacro e che attiene alla sfera divina è “fascinans et tremendus”, affascinante e tremendo nello stesso tempo. La statua sorregge con la mano sinistra un calice mentre il ginocchio destro sostiene il peso di un libro aperto, che potrebbe simboleggiare la ricerca incessante della conoscenza. Il percorso mostrato dallo sguardo enigmatico della statua potrebbe non essere un tragitto concreto, che si snoda tra le vie e i corsi della capitale sabauda, alla ricerca di un luogo fisico dove un oggetto tangibile sia stato occultato da una mano misteriosa, ma potrebbe segnalare un itinerario spirituale, che travalica la concretezza dell’hic et nunc e che conduce alla sapienza, intesa o in senso teologico come capacità di elevarsi verso Dio o in senso pratico come capacità di vivere bene, applicando le regole del buon senso. Lo sguardo imperturbabile della statua, chiuso nell’orizzonte enigmatico della città sabauda, potrebbe indicare che la ricerca del Graal, inteso non come oggetto ma come fonte della sapienza, non è basata sull’applicazione meccanica di regole prestabilite che disegnano un percorso già tracciato, ma che è concessa a ciascuno di noi la libertà e la capacità di costruire il proprio personale itinerario verso la conoscenza
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giovedì 30 maggio 2013
Torino e il Santo Graal
Analizzando il rapporto tra la Sindone e i Templari, una delle teorie di cui occorre dar conto collega il lenzuolo funerario al Graal. Il termine Graal deriva dal latino medievale “gradalis” che significa vaso o recipiente per bere. Una tradizione consolidata identifica il Graal con la coppa usata da Cristo durante l’Ultima Cena, il che si attaglierebbe alla rappresentazione classica dei Templari ritratti come depositari delle principali suppellettili venute a contatto con Gesù durante la sua esistenza. Un altro filone leggendario interpreta il Graal come il recipiente adoperato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue versato da Cristo in conseguenza dei patimenti che gli furono inflitti dai Romani durante la Passione. La prima tesi contrasta con la considerazione di carattere culturale che riporta il concetto di “coppa rituale” alla tradizione celtico-germanica mentre la seconda interpretazione, che riconosce nel Graal la coppa con cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo, è coerente con le norme contenute nei due libri del Pentateuco ebraico, il Deuteronomio ed il Levitico, che codificano precetti riguardanti le pratiche funerarie e che prescrivono, in particolare, di raccogliere il sangue delle vittime di morte violenta affinché non vada disperso. Infatti, il “sangue di vita”, per gli Ebrei, è dimora del soffio vitale instillato da Dio nel corpo dell’uomo plasmato durante la creazione (“Ed il Signore Dio fece l'uomo dalla polvere della terra ed alitò un soffio vitale nel suo naso”, Genesi 2:7). La figura di Giuseppe d’Arimatea è stata manipolata dalle varie tradizioni che si sono succedute attorno al concetto di Graal e che alimentarono il ciclo letterario celtico-francese sviluppatosi tra il XII ed il XIII secolo, dando forma a poemi cavallereschi come “il racconto del Graal” di Chrètien de Troyes. Secondo la versione provenzale, Giuseppe (o il cognato Hebron) sarebbe sbarcato nei pressi di Saintes-Maries-de-la-Mère, culle coste del meridione francese, consegnando il calice ed il suo prezioso contenuto ai sacerdoti druidici del luogo e rappresentando simbolicamente l’incontro-innesto fra il proto-cristianesimo e le radici celtiche della Gallia. Che il concetto di coppa rituale sia connesso alla tradizione germanica è confermato dalla vicenda di re Alboino nella ricostruzione offerta dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Alboino, indossando le vesti di comandante militare e capo politico, guidò dalla Pannonia (l’odierna Ungheria) all’Alta Italia e al Piemonte il raggruppamento di aggregati clanici che le fonti definiscono con il termine etnicamente qualificante di “Longobardi”, attribuendo una precisa caratterizzazione identitaria ad un ammasso frammentato di nuclei tribali (una “nebulosa etnica segmentata”) che presentavano le ascendenze etniche più disparate ed erano accomunati soltanto dall’intento predatorio e dalla sottomissione all’elemento numericamente preponderante, che era di matrice longobarda. Basti pensare che Agilulfo, duca di Torino acclamato rex Langobardorum nel 591 per essere stato scelto come marito dalla principessa bavara Teodolinda, vedova del re Autari, viene menzionato da Paolo Diacono come “Turingio de Taurino” alludendo al fatto che la maggioranza delle fare longobarde stanziate in area torinese era composta da Turingi. Prima di incamminarsi verso Occidente, Alboino guerreggiò contro i Gepidi piegando la resistenza del rivale, il re Cunimondo, e invaghendosi della figlia Rosamunda che decise di prendere in moglie. Stando alla versione ufficiale, deformata dai ricami leggendari, Alboino contravvenne alle consuetudini che reggevano da tempo immemorabile il vivere comune presso i Longobardi e costrinse Rosamunda a brindare usando come calice il cranio del padre, svuotato dalle parti molli affinché prendesse la forma e la funzione di una coppa rituale. Era pratica comune presso i Germani che il sovrano vittorioso si impadronisse della testa del rivale sconfitto ostentandola come trofeo e trasformandone il cranio, intagliato e lavorato, in una coppa con cui banchettare. Il senso sotteso al macabro gesto è chiaramente decifrabile dato che si fondava sulla credenza che certe qualità appartenute al defunto, l’attitudine al comando, il carisma personale ed il prestigio politico, unitamente alla forza fisica, si trasmettessero materialmente alla controparte vittoriosa attraverso l’atto simbolico del bere usando come calice il cranio dell’avversario. In questo modo, si sarebbe realizzato un travaso di energia dall’uno all’altro ed il vincitore avrebbe tratto da quell’assorbimento di forza vitale la legittimazione all’esercizio del comando sulla popolazione sottomessa. Alboino, però, infranse il codice comportamentale al quale si sarebbe dovuto attenere obbligando la moglie a compiere in vece sua l’insano gesto di maneggiare il cranio del padre ed esponendosi alla vendetta di Rosamunda che, nel 572, congiurò contro di lui progettandone l’assassinio in combutta con l’amante. La scrittrice statunitense Margareth Starbird, accantonando l’interpretazione classica che accosta il Graal al calice usato da Cristo, propone una lettura diversa scindendo il termine completo che definisce la coppa, “Sangraal”, nel francese antico “Sang Raal” che significa “sangue reale”. La tesi linguistica allude alla letteratura encomiastica formatasi attorno alle origini della monarchia francese con il proposito di giustificare la pretesa di superiorità che il re di Francia, il Re Cristianissimo, vantava nei confronti degli altri sovrani cristiani d’Europa sostenendo la derivazione diretta del lignaggio merovingio, cui appartenevano i primi re Franchi, dalla stirpe regale ebraica di David, padre di Salomone. Il sangue di re David sarebbe stato portato in Francia da Maria Maddalena, la donna che asperse Gesù di unguenti profumati prefigurandone la fine. La fantasiosa ipotesi non trova l’appoggio del sindonologo torinese Baima Bollone che ha prospettato come plausibile l’identificazione del Graal con la cassetta reliquiario che avrebbe protetto la Sindone dalla tante avversità affrontate durante i viaggi, consentendone la conservazione. Bollone si inserisce così nel filone di pensiero che fa risalire ai monaci del Tempio il possesso del telo sindonico nel periodo di tempo compreso tra la data del secondo sacco di Bisanzio (12-15 aprile 1204) e la metà del Trecento, quando è attestata l’esposizione del lenzuolo all’interno della collegiata di Lirey, nella regione francese della Champagne. Come appiglio probatorio di questa tesi è stata addotto il ritrovamento di un pannello ligneo intagliato e dipinto, datato al 1280, che è riaffiorato dalle macerie della contro-soffittatura di un cottage, parte integrante della mansio templare inglese di Templecombe, colpito dallo scoppio di un ordigno esplosivo durante la seconda guerra mondiale. Templecombe (da “Comba Templariorum”, letteralmente valle dei Templari – da segnalare è la coincidenza con il vocabolo piemontese “còmba”, ricalcato sulla radice di un termine celtico, che significa avvallamento) è una cittadina del Somerset, antica sede di un priorato templare. Il pannello rivela l’appartenenza all’ambito templare nell’esibizione di un repertorio iconografico che riflette l’impronta del Tempio, come la cornice a quadrifoglio, ma l’elemento chiave che ha attribuito alla lastra lignea il valore di indizio probatorio capace di attestare il possibile transito sindonico nelle mani dei Templari è rappresentato dall’effige umana che compare tratteggiata da mano inesperta sulla superficie del pannello. I tratti somatici del volto, malgrado la fattura grossolana e i contorni delineati con approssimazione, sembrano ricalcare i lineamenti facciali dell’immagine sindonica torinese. Inoltre, si sono riscontrate tracce che indicherebbero l’installazione di una serratura, probabilmente montata per richiudere la cassetta, e tale constatazione avvalora ulteriormente la tesi di chi interpreta il pannello di Templecombe come l’anta di un reliquiario ligneo fabbricato in ambito templare per la conservazione di una reliquia importante, legata alla figura di Cristo, che non è inverosimile identificare con la Sindone, forse ripiegata in otto parti o quattro doppi (tetradìplon), coerentemente con la tecnica di conservazione descritta dalle fonti che permetteva di esporre alla vista dei fedeli soltanto il viso. Un’altra notazione rafforza l’impianto probatorio: Templecombe non dista molte miglia dalla fortezza-prigione dove fu incarcerato, nel 1342 e nel 1351, il nobile francese Goffredo di Charny, dopo essere stato catturato in battaglia dagli Inglesi. Charny è segnalato dai dati in nostro possesso come proprietario del telo sindonico almeno a partire dal 1353, anche se permane l’incertezza riguardo alle modalità attraverso le quali la Sindone sarebbe pervenuta a lui, forse attraverso la moglie Jeanne de Vergy (discendente di quell’Othon de la Roche, duca d’Atene, accusato del trafugamento della Sindone dalla chiesa di Bisanzio dov’era periodicamente esposta ai fedeli) o forse tramite vie traverse, acquisizioni sul mercato clandestino delle reliquie o contatti non acclarati con la nomenclatura templare. La lettura sindonica del pannello di Templecombe, se confermata, rafforzerebbe la posizione di chi identifica il Graal con la cassetta reliquiario della Sindone, inserendosi nel filone tradizionale che rappresenta i Templari come scopritori e conservatori di reliquie, soprattutto di quelle che documentano la realtà del passaggio terreno di Cristo. Inoltre, dall’analisi del contesto storico si evince un altro elemento che concorre a chiarificare il quadro: tra le accuse fabbricate ad arte contro i Templari dalla commissione d’inchiesta insediata per volere di Filippo IV il Bello, risalta per la gravità dell’addebito la notizia di pratiche idolatriche tributate dai monaci all’indirizzo di una misteriosa rappresentazione icastica nota come “Bafometto”. Accanto ai numerosi passaggi estratti dalle carte processuali per ricostruire l’esatta natura di questo idolo barbuto che compariva come presunto protagonista di riti misteriosi celebrati dai monaci nel segreto delle loro mansiones, emerge per rilevanza l’opinione espressa da coloro che accusavano i Templari non soltanto d’essersi accostati all’Islam, recependo pratiche “esotiche” come l’abitudine di pregare chinandosi sino a toccare terra con la fronte, ma anche di aver formato un circolo di adoratori del diavolo, il gran separatore (dal greco “diaballein”, separare) che boicotta con ogni sorta di macchinazione il piano salvifico voluto da Dio per l’uomo. Il Bafometto è stato letto, nel contesto di quest’accusa, come prova del satanesimo templare. Infatti, non si sarebbe trattato d’altro che di una rappresentazione, magari un po’ caricaturale, delle fattezze del demonio, al quale si indirizzavano pratiche cultuali all’interno del Tempio. Si tenga conto che, per la Chiesa delle origini, erano soltanto tre i peccati che compromettevano la salvezza individuale: l’omicidio, l’adulterio e l’apostasia, cioè l’abiura della fede cristiana, che si poteva manifestare anche nell’indulgere a pratiche idolatriche. L’idolatria, inoltre, era considerata dai Padri della Chiesa come una forma di demonolatria perché l’idolo, cioè la rappresentazione concreta dell’astratto numen pagano, era concepito come una forma di mascheramento usata dal diavolo per convogliare su di sé le attenzioni del fedele, distogliendolo dalla contemplazione di Dio. Decisivo nel condannare l’idolatria fu l’episodio biblico del vitello d’oro, fabbricato dal popolo d’Israele che tradì la fiducia di Dio approfittando dell’assenza di Mosé. Tributare culto ad un idolo significava non soltanto esporsi al rischio della dannazione eterna e alle sanzioni penitenziali comminate ai colpevoli dalla Chiesa ma anche permettere al diavolo di impossessarsi della propria anima, rendendo indispensabile sottoporre la persona che era caduta nella trappola ordita dal demonio a pratiche di carattere esorcistico volte a liberarne il corpo dalla possessione. Dunque, aldilà della rappresentazione del Bafometto come maschera del demonio, come testa di donna o come idolo barbuto, il merito della condanna inflitta ai Templari non mutava: erano demonolatri perché adoravano un idolo. E’ ovvio che il significato del Bafometto sia stato travisato dagli avversari del Tempio, come è stato acclarato dai ricercatori, oggi propensi a considerarlo come una delle tante reliquia di cui i monaci si appropriarono durante la permanenza in Terrasanta (Centini ritiene probabile la sua identificazione con il teschio di Santa Eufemia). Proprio il presunto legame che s’instaurò tra i Templari e la Sindone potrebbe aiutarci ad interpretare la reale natura del Bafometto. Infatti, non è inverosimile pensare che il Bafometto fosse la rappresentazione di un viso umano, maliziosamente scambiato dai detrattori del Tempio per un idolo, ma in realtà identificabile con un’immagine acheropita, cioè non fatta da mano umana, del Cristo. Se questa intuizione fosse confermata, si potrebbe concludere favorevolmente alla identificazione del Bafometto con la Sindone torinese. La relazione tra la Sindone, il Bafometto e la cassetta reliquiario di Templecombe potrebbe trovare un momento di sintesi e di conferma proprio a Torino, se si interpretasse la statua della Carità (o della Religione) che sorge dirimpetto la chiesa della Gran Madre di Dio, sul lato destro della scalinata antistante il tempio supponendo di discenderla o sul lato sinistro supponendo di fronteggiare il prospetto principale dell’edificio, come un concentrato di segni di non facile decifrazione che sarebbero stati sistemati in quel punto per indicare al sapiente, desideroso di scoprire il nascondiglio del Graal, il cammino da intraprendere per raggiungere la meta, sia che si tratti di un oggetto tangibile sia che si tratti di uno stadio superiore di conoscenza. Nessuno ha ancora appurato se sia lo sguardo della statua, fisso sull’orizzonte definito dalla cornice maestosa della catena alpina, o l’atteggiarsi della figura femminile, che è la personificazione della Carità, a fornire indizi sul tragitto da intraprendere per ritrovare il Graal ma l’idea che Torino possa accogliere anche questo importante segno legato alla vita di Cristo, oltre a quella Sindone che lo avvolse cadavere, assistendo alla sua Resurrezione, non è priva di fondamento razionale. Ciò che è sacro e che attiene alla sfera divina è “fascinans et tremendus”, affascinante e tremendo nello stesso tempo. La statua sorregge con la mano sinistra un calice mentre il ginocchio destro sostiene il peso di un libro aperto, che potrebbe simboleggiare la ricerca incessante della conoscenza. Il percorso mostrato dallo sguardo enigmatico della statua potrebbe non essere un tragitto concreto, che si snoda tra le vie e i corsi della capitale sabauda, alla ricerca di un luogo fisico dove un oggetto tangibile sia stato occultato da una mano misteriosa, ma potrebbe segnalare un itinerario spirituale, che travalica la concretezza dell’hic et nunc e che conduce alla sapienza, intesa o in senso teologico come capacità di elevarsi verso Dio o in senso pratico come capacità di vivere bene, applicando le regole del buon senso. Lo sguardo imperturbabile della statua, chiuso nell’orizzonte enigmatico della città sabauda, potrebbe indicare che la ricerca del Graal, inteso non come oggetto ma come fonte della sapienza, non è basata sull’applicazione meccanica di regole prestabilite che disegnano un percorso già tracciato, ma che è concessa a ciascuno di noi la libertà e la capacità di costruire il proprio personale itinerario verso la conoscenza
mercoledì 29 maggio 2013
Torino e le linee sincroniche
Le cosiddette “linee sincroniche” sono formate da fasci di energia che, percorrendo le cavità sotterranee della Terra, esercitano un’influenza determinante sulle regioni attraversate imprimendo quella caratterizzazione “magica” che contraddistingue alcune aree del pianeta. Questo schema inusuale di interpretazione della realtà, elaborato da Oberto Airaudi, permetterebbe dunque di comprendere la ragione profonda per la quale certi aggregati urbani, come Torino o Praga, sono stati beneficiati dell’etichetta di “città magiche” o certe zone del pianeta, come il Piemonte, sembrino popolate più di altre da racconti che sfumano nella leggenda e che sconfinano nel terreno del mito. Il motivo sarebbe dunque da ricercare nel passaggio, impercettibile per i nostri sensi mortali, di questi flussi di energia sotterranea che lambiscono il Piemonte, effondendovi le proprie tensioni positive. Questi fiumi “carsici” esercitano la loro influenza sia attribuendo alle località che sorgono in corrispondenza della linea sincronica la natura di centri di irradiazione di energia magica sia trasformando le terre che si estendono al di sopra di questi giacimenti mobili d’energia in luoghi capaci di attrarre l’insediamento di popolazioni depositarie di conoscenze magiche appartenenti a diverse tradizioni. Tratto caratteristico del Piemonte, che legittimerebbe l’alone magico che circonda la regione avvicinandone l’essenza intima a quella di lande esotiche come il Tibet, discende dal peculiare intreccio in quest’angolo di Occidente di una rete di quattro linee sincroniche, due orizzontali (identificate con il colore blu e contrassegnate dalle lettere A e B) e due verticali (colorate di rosso e catalogate con i numeri 5 e 6). Queste linee si intersecano dando luogo alla formazione di due “nodi” provvisti di particolare energia: il primo deriva dall’incontro della linea sesta verticale con le due orizzontali e si trova in corrispondenza della città di Torino mentre il secondo, localizzato nel Canavese e generato dalla fusione della linea A orizzontale con la quinta e la sesta verticale, è stato scelto da Airaudi come luogo di fondazione della sua Damanhur. Inoltre, quest’ondata di dinamismo magico che pervade le linee sincroniche, raggiungendo l’apice in prossimità dei nodi, non si limita a contagiare le terre lambite dal fiume sotterraneo, trasformandole in centri di irradiazione di energia magica, ma pone nel contempo in stretta correlazione il Piemonte con le altre regioni del pianeta attraversate dalle stesse linee permettendo di gettare luce sull’intreccio di rapporti tra popolazioni antiche anche molto distanti tra loro. Quanto ai nodi, si è dunque constatato come uno dei due principali punti d’incontro tra le linee sincroniche piemontesi sia rappresentato da quella striscia di terra un tempo paludosa compresa tra il fiume Po e la Dora Riparia. Proprio quest’angolo dell’odierna Torino potrebbe aver ospitato i primi abitatori dell’antica Taurasia, che la storia qualifica come Taurini (talora confondendoli con i Taurisci) e le fonti accreditano come appartenenti ad “antica stirpe ligure” (Plinio il Vecchio) o come “Semigalli” (Tito Livio), suggerendo la sovrapposizione del ceppo celtico sulla preesistente matrice ligure. La documentazione storica, che scarseggia, si mescola alla mitologia greca ed egizia, sovente sfruttata per scopi celebrativi della dinastia di Savoia da scrittori di Corte quali Emanuele Thesauro, ora attribuendo la fondazione di Torino al principe egizio Eridano, il quale avrebbe portato con sé il culto tributato al Dio Apis simboleggiato dal toro, ora intrecciandone le origini con il mito olimpico di Fetonte, figlio del dio Sole, il quale, guidando il carro solare e provocando danni devastanti, sarebbe stato scaraventato per punizione da Giove nel fiume. Come narra Apollodoro, le sorelle, disperate, sarebbero accorse sulle sponde del fiume piangendo lacrime d’ambra e venendo poi trasformate nei pioppi che accompagnano tuttora il corso del Po. Soltanto più tardi, i Celto-liguri chiamarono il fiume “Bodincus”, ed i Romani “Padus” dal termine che designa una specie di pino selvatico. Prendendo spunto da questi miti, Airaudi immagina la Torino delle origini come una cittadella sacra abitata esclusivamente da sacerdoti circondati da adepti delle conoscenze magiche di matrice egizia e celto-ligure, realizzando quella mescolanza armonica tra tradizioni nordiche e meridionali che caratterizza fortemente l’impronta magica della città. Proprio questa preesistenza di conoscenze magiche coltivate dalle popolazioni stanziate in loco avrebbe esercitato un’influenza determinante sulla fondazione della colonia romana di Julia Augusta Taurinorum nel 25 a.C.. I Romani attribuivano solitamente grande importanza al rispetto dei “riti” tanto da assegnare loro anche la capacità di presiedere e regolamentare l’atto di fondazione di un nuovo insediamento. La castramentatio della città romana era infatti fondata sull’intersezione ad angolo retto dei due principali assi stradali: il Decumanus Maximus, l’attuale Via Garibaldi, che seguiva l’andamento Est-Ovest, ed il Cardo, corrispondente alla Via Porta Palatina, che invece era orientato lungo il canale Nord-Sud. L’orientamento Est-Ovest del Decumanus, in particolare, implicava che il tracciato riproducesse graficamente il percorso compiuto dal Sole nel corso della giornata con la nascita ad Est, fonte della vita, ed il tramonto ad Ovest, che simboleggia il declino. Nel caso di Torino, secondo le annotazioni di Airaudi, si è scoperto che il Decumanus devia rispetto al consueto assetto di circa 30° riconducendo quest’anomalia non alla casualità bensì all’influenza di quel complesso di precedenti conoscenze magiche legate al territorio delle quali i Romani non poterono non tenere conto nella celebrazione dei riti di fondazione della colonia subalpina. Le linee sincroniche, come si è anticipato, rivestono notevole importanza anche nella interpretazione dei rapporti, spesso oscuri, tra le popolazioni che colonizzarono il Piemonte ed altre regioni del pianeta. Riportiamo due esempi. La linea sincronica A orizzontale collega l’area subalpina al Mar Baltico e questo fluire di energie sotterranee potrebbe aver influenzato il moto di colonizzazione che portò l’antica stirpe dei Liguri ad estendere il proprio dominio sulle terre subalpine, fondendosi a partire dal VI secolo a.C. con i Celti. L’antichità della stirpe ligure è comprovata dall’accenno di Esiodo, confermato da Strabone, che immagina il dominio arcaico del mondo ripartito tra Sciti (allevatori di cavalli), Etiopi e Liguri (identificati dai Greci antichi come primi abitatori dell’Occidente). Plutarco, nella Vita di Mario, descrive la battaglia di Aquae Sextiae (102 a.C.), che contrappose l’esercito di Teutoni ed Ambroni, accomunati dalla matrice etnica definita ora germanica ora celtica, alle legioni romane comandate da Mario. Egli si sofferma sul dettaglio del grido di guerra lanciato dagli Ambroni che cominciarono a far risuonare nel campo il nome con il quale essi si riconoscevano. I Liguri, mescolati all’esercito romano, riconobbero nel nome di “Ambrones” la stessa radice con la quale anticamente essi qualificavano la loro stirpe e risposero ripetendo quel termine. Questo episodio è stato adoperato dai cultori dell’interpretazione magica della storia come tassello d’un complesso mosaico che comproverebbe l’esistenza di rapporti tra i Liguri stanziati in area piemontese e antiche popolazioni nordiche o baltiche, tra cui gli stessi Ambroni. Che i Liguri effettivamente vantassero ancestrali legami di parentela con gli Ambroni o consimili tribù, nel senso che fossero emigrati da quelle terre nordiche per colonizzare il Piemonte, non può essere accertato. Si scorge, tuttavia, una evidente coincidenza tra la circostanza riportata da Strabone e le indicazioni storiche che accreditano i Liguri come mediatori nei traffici commerciali di ambra, la preziosa resina fossile del Baltico, che veniva trasportata dall’estremo Nord per essere venduta a mercanti fenici e greci presso i porti della Provenza. Ed è anche interessante constatare che l’immagine degli antichi Liguri come commercianti d’ambra si riflette nel mito greco delle lacrime versate dalle sorelle di Fetonte e trasformate nella preziosa resina solidificata.
In Piemonte si riscontra anche un’elevata concentrazione di oggetti “magici” custoditi in luoghi segreti come, ad esempio, il Vello d’Oro. Quest’oggetto, appartenente alla mitologia greca, ricorda l’impresa degli Argonauti e di Giasone nella lontana Colchide, regione che si estende alle pendici del Caucaso digradando verso le coste del Mar Nero ed essendo solcata dalla linea sincronica B orizzontale che attraversa anche il Piemonte. La figura mitizzata del Vello, in realtà, nascerebbe dalla consuetudine, in uso presso alcune popolazioni della regione, di adoperare pelli d’agnello per raccogliere le pagliuzze d’oro trascinate dalla forza dei fiumi che scendevano verso il mare. Questi granelli, intrappolati nel pelame, conferivano al vello quella veste dorata e luccicante che lo rendeva così affascinante, trasformandolo in oggetto mitico. Il Vello d’Oro, oggetto di contesa tra Greci e Troiani che ambivano a disporre delle sue proprietà magiche, è additato come il reale motivo di conflittualità che portò allo scoppio della guerra di Troia cantata dall’Iliade. Come discernere la verità storica dal mito? Nella bramosia di possesso del Vello d’Oro potrebbe scorgersi il riverbero mitologico della causa economica dello scontro militare, individuabile nel controllo dei traffici commerciali tra il Mar Ionio ed il Mar Nero. D’altronde, l’archeologo tedesco Schliemann riuscì nell’impresa di ritrovare i resti dell’antica Troia lasciandosi guidare unicamente dalle indicazioni riportate nell’iliade……Tornando al Vello come oggetto magico, dunque, gli stessi miti che intravedono nel conflitto di Troia una contesa per il suo possesso, narrano anche che alcuni transfughi troiani, scampati all’incendio della loro città, abbiano peregrinato per mari e per monti approdando alfine in Piemonte e fondando alcune città. In una di queste località piemontesi si troverebbe dunque custodito il Vello d’Oro e, d’altronde, Troia si trova in prossimità della linea sesta verticale che solca anche il Piemonte. Verità o leggenda? E’ difficile discernere il discrimine tra le due dimensioni, soprattutto per quei periodi della Storia scarsamente illuminati da prove documentali o archeologiche. I confini tra i due mondi, talora, si spostano ma è bene lasciare alla leggenda il suo incontrastato dominio.
martedì 28 maggio 2013
I misteri di via Cappel Verde
Parallela a via Palazzo di Città,da via XX Settembre a via Porta Platina,via Cappel Verde è una piccola via che deve il suo nome alla presenza nel sei,settecento di un albergo che portava questo nome.La via è meta di curiosi dopo che appassionati di esoterismo hanno fatto di essa una delle vie più importanti nel turismo magico di Torino.Proprio in questa via al civico sei abitava Enrichetta Naum unica donna esorcista di Torino che nel suo appartamento posto al secondo piano operava esorcismi e guarigioni.
Enrichetta nel 1895 al età di 52 anni fu nominata dal'autorità ecclesiastica di allora esorcista,in quegli anni a Torino vi era necessità di avere esorcisti ma a in città,ve ne era solo uno e in oltre in età avanzata la Naum compiva,a due passi dal Domo, strani riti e guarigioni incomprensibili per i medici del tempo,le guarigioni avvenivano pronunciando strane formule e con la somministrazione di pozzioni che la stessa Naum faceva bollire in pentoloni sulla stufa di casa.
Enrichetta morì nel 1911 ma negli ultimi anni della sua vita si era trasferita in una mansarda di via Garibaldi
Pare però che non abbia mai lasciato l'appartamento di via Cappel verde dove forse per gli esorcismi da lei compiuti che,secondo alcuni,hanno in qualche modo impregnato il luogo ancora oggi si sentono strani rumori e il suo fantasma compare ancora di tanto in tanto spaventando gli odierni abitanti.
lunedì 27 maggio 2013
Il SATOR di via Gioberti
Il curioso quadrato magico è visibile su un numero sorprendentemente vasto di reperti archeologici, sparsi un po' ovunque in Europa. Ne sono stati rinvenuti esempi nelle rovine romane di Cirencester" (l'antica Corinium) in Inghilterra, nel castello di Rochemaure (Rhône-Alpes), a Oppède in Vaucluse a Siena,sulla parete del duomo cittadino di fronte al Palazzo Arcivescovile, nella Certosa di Trisulti a Collepardo a Santiago di Compostela Spagna ad Altofen in Ungheria a Riva San Vitale in Svizzera, solo per citarne alcuni.A volte le cinque parole si trovano disposte in forma radiale, come nell'abbazia di Valvisciolo a Sermoneta (Latina), oppure in forma circolare, come nella Collegiata di Sant'Orso di Aosta. Altre chiese medioevali ancora, nelle quali si registra, in Italia, la presenza della grande frase palindroma (in forma di quadrato magico oppure in forma radiale o circolare) sono: la Pieve di San Giovanni a Campiglia Marittima, la chiesa di San Potito ad Ascoli Satriano (Foggia), la chiesa di San Pietro ad Oratorium a Capestrano, in provincia dell'Aquila, la Chiesa di San Michele ad Arcè, frazione di Pescantina (Verona) Chiesa di Santa Maria Ester ad Acquavivia Collecroce (CB), ed altri ancora.Gli esemplari più antichi e più celebri sono quello incompleto rinvenuto nel 1925 durante gli scavi di Pompei [sepolta il 24 agosto del 79 d.C.], inciso su una colonna della casa di Publio Paquio Proculo, e quello trovato nel novembre del 1936 su una colonna della Palestra Grande sempre a Pompei. Quest'ultimo ha avuto grande importanza negli studi storici relativi alla frase palindromapoiché esso è completo e arricchito da altri segni interessanti che non si sono trovati altrove e fu certamente inciso prima dell'eruzione del 79 d.C.. A partire da questi ritrovamenti, il quadrato del Sator viene anche detto latercolo pompeiano Difficile stabilire il significato letterale della frase composta dalle cinque parole, dal momento che il termine AREPO non è strettamente latino. Alcune congetture su tale parola nelle Galie e nei dintorni di Lione esisteva un tipo di carro celtico che era chiamato arepos, si presume allora che la parola sia stata latinizzata in arepus e che nel quadrato essa avrebbe la funzione di un ablativo strumentale, cioè un complemento di mezzo portano ad una traduzione, di senso oscuro, quale Il seminatore, con il carro, tiene con cura le ruote, della quale si cerca di chiarire il senso intendendo il riferimento al seminatore come richiamo al testo evangelico Una interpretazione più semplice considera "Arepo" come nome proprio, da cui il significato diviene:Arepo, il seminatore, tiene con maestria l'aratro. La presenza del palindromo in molte chiese medievali induce a considerarlo - per quanto esso possa aver avuto un'origine più antica - un simbolo che si inserisce nella cultura cristiana di quel periodo. Partendo dalla identificazione del Sator, il seminatore, con il Creatore (vedi la Parabola del seminatore e la Parabola del granello di senape), qualche studioso ha proposto la seguente interpretazione: "Il Creatore, l'autore di tutte le cose, mantiene con cura le proprie opere.L'interpretazione del palindromo nell'ambito della cultura cristiana è coerente con la grande quantità di presenze e ritrovamenti in luoghi di culto medievali. Il ritrovamento del "latercolo pompeiano", risalente a data anteriore al 79 d.C., ha sollevato numerose controversie sull’origine cristiana del quadrato in quanto, pur essendo un fatto documentato la presenza di comunità cristiane a Pompei Ercolano e in Campania, la A e la O poste ai lati della croce sono un riferimento alla simbologia dell'Alfa e l'Omega la cui prima comparsa è attestata nell'Apocalisse di Giovanni, redatta, secondo qualcuno, in data più tarda. In realtà l'obiezione secondo cui l'Apocalisse di Giovanni sia stata redatta successivamente non coglie nel segno: infatti "per usare la A e la O come Alfa ed Omega, parlando del Signore, ... non c'è affatto bisogno di aver letto l'Apocalisse, perché questo stesso libro si rifà all'Antico Testamento ed alle immagini del profeta Isaia (41,4; 44,6; 48;12)Il primo a ipotizzare la tesi dell'apocalisse fu F. Grosser che osservando con spirito enigmistico l'insieme delle lettere che lo compongono ha rilevato che esse possono servire a comporre una croce, nella quale la parola "PATERNOSTER" si incrocia sulla lettera N: avanzano due A e due O, che possono porsi ai quattro estremi della croce, come fossero l'alfa e l'omega, il principio e la fine. Il quadrato sarebbe dunque una crux dissimulata, un sigillo nascosto in uso tra i primi cristiani ai tempi delle persecuzioni. Questa interpretazione è rafforzata dal fatto che il quadrato magico stesso contiene al suo interno una croce greca dissimulata, costituita dall'incrocio, al centro del quadrato, delle due ricorrenze di TENET, l'unica parola della struttura palindroma di sé stessa. Inoltre è stato osservato che lo stesso carattere T era utilizzato dai primi cristiani per indicare la croce, così come usavano altre strutture che ne potevano richiamare la forma, quali l'albero della nave o il timone. Questa interpretazione, per quanto plausibile, non è accettata da tutti gli studiosi, specie da quanti rifiutano l'origine cristiana del palindromo. Una spiegazione più semplice rispetto a quella della crux dissimulata, ma meno plausibile dato che i più antichi di questi quadrati risalgono al I secolo della nostra era, sostiene che, coerentemente con abitudini diffuse nel Medioevo, l'impiego in ambiente cristiano del quadrato del Sator doveva corrispondere a finalità apotropaiche , come avvenne per molte altre iscrizioni suggestive, del tipo Abracadabra o Abraxas.Non sarà stata ininfluente, a questo riguardo, la presenza all'interno del quadrato della croce formata dalla doppia parola TENET
sabato 25 maggio 2013
Per Pierochieri
Se ci stai ancora seguendo,volevo dirti che ieri sera parlando con alcuni amici appassionati di cartomanzia ho raccontato la tua avventura di qualche anno fa e ti devo dire che sono rimasti stupiti ed allo stesso tempo incuriositi,poi mi hanno dato un idea:saresti disposto a leggere le carte agli amici del nostro blog che eventualmente te lo chiedessero?
Pensaci e facci sapere sarebbe simpatico
ciao
Il Portone del Diavolo
Uno dei punti più misteriosi e interessanti della Torino magica,si trova in pieno centro a pochi passi dalla centralissima Piazza San Carlo in via XX Settembre vi è il Palazzo Trucchi,oggi sede di un importante banca,Il palazzo possiede un importante manufatto che in se racchiude tutte quelle credenze che a Torino trovano terreno fertile.
Stiamo parlando del famoso PORTONE DEL DIAVOLO,Palazzo Trucchi si trova in via XX,una volta chiamata via San Carlo e il suo ingresso é chiuso da un portone attraverso il quale tutti i giorni passano centinaia di persone senza nemmeno fermarsi a osservare un opera d'arte affascinante e allo stesso tempo terrificante.
Il palazzo fu costruito nel 1673 ad opera di Amedeo di Castellamonte e non prevedeva un portone quindi chiunque poteva entrare nel cortile e attraversarlo poi improvvisamente comparve il portone,ideato da Pietro Danesi e scolpito a Parigi,ma a Torino storie come questa fanno partire leggende molto particolari come quella che vuole il portone comparso improvvisamente in una notte di tempesta racchiudendo al suo interno un apprendista stregone che aveva svegliato lo spirito sbagliato e caduto vittima della sua collera.
Ma guardiamolo l'attenzione viene subito attirata dal elemento principale,il battacchio che definire particolare e poco esso,infatti,raffigura il volto del demonio sogghignate che sembra osservare i passanti un volto di demone cornuto con due serpenti che escono dalla sua bocca,ma anche gli intagli del legno nascondono dei messaggi più o meno strani per esempio un piccolo topolino che si nasconde tra le decorazioni floreali che ci fa un topolino in quel contesto?,nella colonna centrale vi e racchiusa una figura che tiene tra i suoi artigli una sfera a simboleggiare il demonio che tiene sotto il suo giogo il mondo.....inquietante..?
Il palazzo stesso,e ricco di leggende come quella della ballerina Russa che fu uccisa durante una festa nel 1790... si racconta che il pugnale e l'omicida sparirono e mai più trovati
Ma la cosa più assurda e che proprio nei locali dove si svolgevano i festeggiamenti si trovava un quadro che rappreentava una ballerina che danza tra le fiamme del inferno......
Ad arricchire la storia del palazzo e la mia scomparsa di un ufficiale francese,Melchiorre Due Perril, pare che mentre si stava preparando a partire con documenti top secret aveva chiesto una scorta perché in precedenza aveva subito minacce.Ma Du Perril non uscì mai dal palazzo e di lui non si seppe nulla per circa 20 anni quando,durante alcuni lavori venne alla luce un intercapedine dove fu trovato il suo corpo,o meglio il suo scheletro con la frattura del cranio e la domanda e ma come e possibile assassinare una uomo e murarlo senza che alcuno sentisse e vedesse nulla?.Un ultima cosa il Palazzo si trova al numero 15 di via XX settembre ed era sede della REALE FABBRICA DI CARTE E TAROCCHI e sapete che cosa rappresenta il numero 15 nei tarocchi?..il Demonio.....coincidenza?
mercoledì 22 maggio 2013
In merito a quanto chiesto da Pierochieri, se qualcuno ha da raccontare sue esperienze simili e abbia voglia di renderle pubbliche qui saranno ben accette.
In merito invece al fatto che tu abbia un feeling particolare con le donne durante la lettura delle carte potrebbe essere per il fatto che le donne un po' come i gatti sono più sensibili e misteriose degli uomini.
Questo e quanto mi scrive un lettore del blog,che ringrazio, e ve ne faccio partecipi come esempio di quanto Torino sia permeata da questo tipo di accadimenti.
E per rispondere a Pierochieri, si in effetti ,come ho già avuto modo di scrivere quella zona e proprio quel monumento e quella piazza sono al centro delle leggende più strane legate al mondo esoterico, qui iniziava, per i Romani il mondo delle tenebre perché era la direzione in cui tramontava il sole e proprio qui iniziava la necropoli che andava fino al odierno corso Principe Eugenio.
In oltre a poca distanza vi era il luogo delle esecuzioni capitali oggi famoso come il Rondò della Forca. Da non dimenticare che proprio davanti al monumento del Fréjus si trova un aiuola con un obelisco al centro che oggi è il punto di ingresso alle fogne ma per i romani era il punto di ingresso agli inferi .
Quindi si capisce come tutta quest'area sia un luogo, per chi ci crede, di forte carattere nefasto e forse dove incontri come quello fatto da Pierochieri non sono poi cosi rari..................
PIEROCHIERI....................
...alcuni anni fa in una serata nebbiosa di novembre mi trovavo in Piazza Statuto verso le sette c'era pochissima gente in giro anche per il freddo mentre aspettavo un amico mi comparve all'improvviso una strana figura , un signore dall'aspetto inquietante che iniziò subito a parlarmi chiedendo informazioni sugli orari dei mezzi pubblici ,e senza neanche ascoltare la mia risposta mi indicò la statua che ci sovrastava ( quella dei caduti del Fréjus ) e disse "....li c'è lo spirito di satana...) sul momento non riuscii a capire e balbettai : ...." come ?... " la sua bocca abbozzò ad un sorriso che ricordo mi fece venire i brividi !!! poi senza che io potessi capirne il motivo estrasse dalla tasca del giaccone un mazzo di carte le mischiò e mi disse " scegli quattro carte.." io anche se non lo volevo fare non riuscii a dirgli di no ed eseguii l'ordine lui le fissò poi mi disse di ripetere l'operazione ed io anche questa volta lo feci poi guardandomi mi gelò il sangue sapeva di me cose che neanche io mi ricordavo !! Mi parlò di un viaggio che io avevo fatto sette o otto anni prima in Jugoslavia cosa che potevano sapere solo amici stretti o di famiglia e quello io non lo avevo mai visto...!!!! ....ero paralizzato non ricordo di essermi mai trovato in una situazione simile... mi guardava e mi spiegò come leggere io stesso le carte ...mi disse anche : "...leggere le carte non è come farsi leggere la tazzina del caffè....sai cosa voglio dire....." ero sconvolto...sapeva che otto anni prima durante il viaggio in Jugoslavia una vecchia signora di Bitola ( Macedonia ) conosciuta per le sue doti di veggente mi aveva letto la tazzina del " caffè turco " era quella l'unica volta nella mia vita che mi fosse capitato di farmi leggere la tazzina . Come poteva saperlo quel tipo ?? fatto sta che dopo avermi spiegato la lettura delle carte mi disse di leggerle a chi avessi voluto ...." .....non temere farai centro ...!! " concluse io non avevo parole mi voltai e dicendo che era tardi andai via dopo due passi voltandomi lanciai uno sguardo .....non cera più ..!! sparito !! non ci crederai ma arrivato a casa presi un mazzo di carte e senza spiegare nulla le feci al mio vicino di casa........incredibile... mi disse che ci avevo azzeccato..!! da allora , solo a chi sapendolo me lo chiede , io mi rendo disponibile alla lettura , ovviamente gratis e devo dire che ho ricevuto diversi attestati di stima e conferme.... Ora ti chiedo veramente quel luogo ha una storia così sinistra ?? chi poteva essere quello strano tipo ?? sarà stata solo una coincidenza ? ma soprattutto è vero che c'è qualcosa di demoniaco in quella statua ?? . Da allora non mi è mai più successo nulla di strano....ma oggi mi trovo a saper leggere le carte, non in modo così particolareggiato come mi furono lette da quella strana figura ma a dire di quelli a cui le leggo mi difendo piuttosto bene. Attendo risposte ai quesiti ....
Palazzo Barolo
Il Palazzo Barolo (anche palazzo Falletti di Barolo),è un palazzo partrizio situato in via delle Orfane, fu costruito alla fine del seicento da Gian Francesco Baroncelli.
In origine di proprietà dei Provana dei Druent , nel 1727 passo in proprietà dei Falletti di Barolo che intorno al 1750 inizio il restauro per portarlo alla forma attuale.
Fulcro del grandioso atrio di ingresso e lo scalone che occupa lo spazio centrale anziché la collocazione a lato come imponevano canoni architettonici dei palazzi nobiliari del settecento.
Le decorazioni del pianterreno e del piano nobile risalgono alla fine del seicento; gli stucchi sono di Piero Somasso, le pregevoli tele invece sono del pittore Francesco Trevisani glia affreschi sono opera di Legnani.
Il palazzo fu la residenza di Tancredi Falletti di Barolo e della moglie Giulia di Barolo che furono gli ultimi esponenti di questa storica casata. Il palazzo inoltre ospitò il patriota Silvio Pellico quando fu scarcerato dalle prigioni austriche.
Curiosamente il palazzo ha subito nel corso dei secoli una riduzione per poter allargare la strata adiacente, a ricordo del vecchio ingombro la pavimentazione stradale riporta segno del vecchio perimetro
Come si e detto il palazzo fu l'abitazione di Giulia di Barolo il cui nome da nubile era Juliette Colbert di Maulévrier (1785-1864), nata da una nobile famiglia francese, rimase orfana al età di 7 anni e durante la rivoluzione francese molti dei suoi parenti furono giustiziati.
Nel 1806 sposò il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo e nel 1814 si trasferì definitivamente a Torino a palazzo Barolo che al quel tempo era un punti di riferimento per l'élite culturale europea. Ma Torino ricorda la Marchesa per la sua anima pia e caritatevole, Giulia si dedico all'assistenza delle carcerate ed insieme al marito fondo scuole gratuite fornì assistenza ai poveri e fondò la congregazione delle suore di Sant'Anna, fu inoltre una delle più assidue benefattrici di San Giovanni Bosco che proprio in quegli anni iniziava ala sua opera a Torino che sfociò ,come sappiamo, nella creazione de ordine Salesiano.
Dal 1899 la sua salma riposa nella chiesa di Santa Giulia da lei fatta costruire nel borgo Vanchiglia.
Il palazzo Barolo infine, come molti palazzi torinesi ha il suo fantasma che e quello di Elena Matilde di Leyni-Druent che per pene d'amore si suicido al inizio del settecento gettandosi da una delle finestre e qualcuno dice che ancora oggi nelle notti di luna piena il suo spettro vaghi senza meta tra le stupende sale del palazzo.
INVITO
Ciao oltre le storie su Torino che vengono riportate su questo blog mi piacerebbe che i lettori inviassero loro storie e le leggende legate alle loro città .
martedì 21 maggio 2013
Piazza Castello
Piazza Castello e il la piazza principale di Torino,e la sede dei più importanti palazzi cittadini quali,primi fra tutti,il Palazzo Reale e il Palazzo Madama e su questa piazza confluiscono i 4 maggiori assi viari della città. via Garibaldi,via Po,via Roma,e via Pietro Micca.
Progettata nel 1584 da Ascanio Vitozzi questa si estende per una superficie di 40.000 metri quadrati,rendendola così la seconda piazza cittadina per estensione dopo Piazza Vittorio Veneto.La piazza fu gravemente danneggiata durante la guerra civile che ebbe come teatro Torino nel 1637-1640 fu ricostruita per volere di Maria Cristina di Francia madre di Carlo Emanuele II di Savoia,futuro duca.
Si devono a lei l'ammodernamento del vecchio Palazzo di San Giovanni,il Palazzo Reale e diede incarico di iniziare i lavori su Palazzo Madama a partire dal 1645
La piazza per tutto il seicento e per gran parte del settecento si presentava divisa in tre parti ben distinte,la più antica era quella rivolta verso via Dora Grossa (l'odierna via Garibaldi),la seconda era quella verso il nuovo ampliamento della città verso il Po quindi quella che oggi è via Po,infine la Piazzetta Reale che al epoca era divisa dal resto della piazza da un muro in cotto.Questa piazzetta era delimitata da un portico utilizzato dai Savoia come luogo da dove si affacciavano in occasione di manifestazioni pubbliche come l'ostensione della Sindone la struttura venne distrutta da un incendio nel 1811.A quel punto,per volere di Carlo Alberto fu costruita la cancellata che noi vediamo progettata da Pelagio Palagi tra il 1835 e il 1842.Un altra importante struttura persa con il tempo e la manica che univa il Palazzo Madama al Palazzo Reale che i Sovrani e la famiglia percorrevano per spostarsi da un palazzo al altro e dove erano posizionate le collezioni d'arte.Questa struttura venne demolita definitivamente sotto l'occupazione Napoleonica.
Parleremo in un alto Post Del palazzo Reale e del Palazzo Madama perché molto importanti storicamente e esoterico
Continuando però il discorso sulla Piazza,scoprirà che per gli esoteristi è orientata estremamente importane in quanto in contrapposizione con Piazza Statuto questa e il centro della magia Bianca quindi il centro del bene il cosìdetto cuore bianco,il punto dove,secondo gli iniziati,si concentrerebbe tutta la magia positiva si trova esattamente tra le due statue equestri poste sulla cancellata,esse raffigurano i Dioscuri (Castore e Polluce) e da questo punto partirebbero dodici linee immaginarie che dividono la città in dodici settori,ognuno dei quali corrisponde a un segno zodiacale la cancellata invece è orientata verso il punto in cui sorge il sole.
Ma dal punto di vista alchemico la cosa più rilevante si troverebbe sotto Palazzo Reale, secondoso la tradizione alchemica a Torino si troverebbero 3grotte accessibili da 6 punti diversi 3di questi accessi non conducono a nulla ma servono per evitare che curiosi si infilino al loro interno,tali grotte sono conosciute come GROTTE ALCHEMICHE.
Sono luoghi di massima energia dove i pensieri e l'inconscio può essere materializzato e parrebbe che l'ingresso ad una di queste grotte,la più importante,si trovi esattamente nei pressi della fontana dei giardini reali.
lunedì 20 maggio 2013
Piazza Solferino
Piazza Solferino è una grande piazza del centro storico diTorino,che si trova alla confluenza tra via Pietro Micca e via Santa Teresa ma a ben vedere la piazza non e che il prolungamento di corso Re Umberto del quale è punto di inizio.Prende il nome da Solferino un comune in provincia di Mantova dove il 24 giugno 1859 ebbe luogo una battaglia che vide prevalere le truppe franco-piemontesi sugli austriaci.
La piazza ospita splendidi palazzi ottocenteschi e uno dei più conosciuti teatri cittadini il Teatro Alfieri.
Piazza Solferino era importante già in età Napoleonica ed era conosciuta come piazza del mercato del legno, detta Piazza del Bosco,la sua forma non era quella attuale ma era circondata da bassi fabbricati e tettoie che servivano appunto all'attività che vi si svolgeva , in oltre sul lato verso l'odierna via dell' Arcivescovado si trovavano numerosissimi orti,non dimentichiamo che al epoca la Piazza si trovava in periferia.
Nel 1853 l'architetto Carlo Promis progettò la Piazza come ora la vediamo le aiuole sono invece del 1870 fortemente volute dal comune per abbellire la Piazza visto anche che nel 1855 ad opera di Giuseppe Panizza fu costruito il Teatro Alfieri,nel 1877 è il momento della statua equestre dedicata a Ferdinando di Savoia Genova mirabile opera di Alfonso Balzico.Ultima installazione in ordine di tempo nella piazza e la famosa fontana Angelica opera di Giovanni Riva che ha trovato collocazione nella piazza solo nel 1930 voluta dal allora sindaco Riccardo Cattaneo grazie a un finanziamento del ministro della real casa Paolo Baiotti la fontana prese il nome della madre di quest'ultimo (Angelica Cugiani).Ma non dimentichiamo che a Torino tutto e magia e proprio la fontana Angelica,che nel intenzione del'autore doveva far riferimento alle stagioni,per molti si carica di simboli magici ed esoterici che si collegano con la massoneria.Inizialmente la fontana doveva essere costruita in Piazza San Giovanni e orientata verso il Duomo cittadino,cioè orientata ad est,un luogo molto importante per gli esoteristi in quanto direzione da cui sorge il sole, ma si dice che proprio per il carico simbolico della fontana e per la sua posizione suscitò le ire della curia che fece pressioni verso il comune affinché spostasse la destinazione della stessa.
Le due figure femminili rappresentano la Primavera e L'estate ma secondo gli iniziati rappresenterebbero i due aspetti del amore quello sacro ( la Primavera,la virtù ) e quello profano (l' Estate,il vizio), mentre le due figure maschili (Autunno e Inverno)per gli iniziati sarebbero Boaz e Jaquim,i due mitici sostenitori delle colonne d'Ercole guardiani della soglia che immette verso l'infinito.La conoscenza è rappresentata dall'acqua che entrambe i personaggi versano dagli otri,allontanandosi di qualche passo dalla fontana si può notare come tra le due figure maschili si apra un varco rettangolare perfettamente squadrato.Il varco è il cuore del mistero e rappresenterebbe la soglia invalicabile per i profani,oltre la quale si accede a una dimensione sconosciuta.
Boaz inoltre rappresenta il primo grado dell' iniziazione che il neofita deve compiere lungo cammino su per i 33 scalini delle logge massoniche. Jaquin invece rappresenta la perfezione,la conoscenza.La fontana quindi rappresenterebbe la trasformazione interiore che l'iniziato deve compiere per raggiungere la vera conoscenza e quindi la perfezione.
Sul retro della fontana tra le varie statue spicca la figura di un bambino con i capelli a mo di corona questo bambino rappresenta il sole e quindi Gesù ma alla destra del bimbo vi è la testa di una animale,un ariete,che nella simbologia esoterica è il il demonio quindi a rappresentare la continua lotta tra le forze del bene (il Sole,la luce) e quelle del male (le tenebre).Ma non solo!,guardando il basamento dove numerose bocche buttano fuori l'acqua si può notare che quella centrale in realtà e Medusa,la figura della mitologia che pietrificava con lo sguardo ma anche la custode dei segreti del labirinto....Quindi quale migliore collocazione se non qui nel passaggio tra la parte posteriore e quella anteriore della fontana!!
domenica 19 maggio 2013
Richieste
Ciao come sapete il blob nasce per far conoscere Torino,i suoi palazzi, le sue vie e piazze a soppratutto i suoi misteri,quindi, vi invito qualora abbiate delle curiosità da soddisfare o anche delle nozioni pratiche se avete intenzione di venirci a trovare,non esitare Chiedetemi. e io cercherò di soddisfare ogni richiesta.
Vi aspetto
venerdì 17 maggio 2013
Anteprima
Domani pubblichero un post su Torino e gli egizi.Davvero Torino e stata fondata dagli egizi? e come e nato il museo egizio? darò rimposta a queste e a molte altre domande a domani.....
Torino e gli Egizi
Per qualcuno Torino fu fondata dagli Egizi che videro nella zona di congiunzione tra Po e Stura,quella che oggi tutti conosnoncono come "LA BARCA,"un terreno particolarmente adatto ad accamparsi e poi,con il tempo, a sviluppare una città ed e forse per questo motivo che Torino è la sede del secondo museo egizio del mondo sia per il numero di pezzi in esso esposti che per la loro rilevanza storica.Ma come ebbe inizio questo particolarissimo matrimonio tra Torino è il Cairo. Era il 1629 quando i Savoia acquistarono dai Gonzaga un reperto Egizio frutto del sacco dei Lanzichenecchi del 1537 poco prima che il reperto fosse fuso.Il reperto consisteva in una tavola in bronzo con incise divinità egizie in oro e argento e con al centro l'effigie della dea Isi.Oggi sappiamo che in realtà quella tavola era un abile copia di epoca romana con geroglifici puramente ornamentali.
Ma grazie a questo reperto chiamato Mensa Isiaca si scatenò nei Savoia una vera e propria ossessione per l'Egitto anche se a Torino già nel 1564 durante gli scavi per la costruzione della cittadella fu ritrovata la base di una statua con incisa una dedica proprio alla dea Isi.Fu allora che prese piede grazie a Pingone,Diodoro Siculo,Nanni da Viterbo,che parlarono di origini Egizie la leggenda della fondazione della città, secondo loro infatti la Torino fu fondata dai seguaci della dea Isi civilizzatrice del mondo occidentale.
E fu per primo lo storico Luigi Muratori a parlare di un tempio dedicato a questa dea indicata con il nome Iside Magna proprio dove oggi sorge la Gran madre di Dio. Fu la bellezza della Mensa Isaica a convincere Carlo Emanuele III a chiedere al professor Vitaliano Donati di portare dal Egitto "qualche pezzo di antichità o manoscritto raro o anche qualche mummia delle più conservate ", così il 20 giugno 1759 il professore parti da Venezia per reperire e spedire a Torino i primissimi reperti egizi AUTENTICI, tra i quali spiccava una bellissima statua della dea leonessa Sekhmet e una altrettanto bella statua di granito rosa raffigurante Ramsesse II.
Questi reperti furono il primo embrione del museo egizio, la vera e propria svolta si ebbe con Carlo Felice che nel 1824 acquistò per un prezzo enorme la collezione di Bernardino Drovetti, il piemontese console generale di Francia in Egitto.Il Drovetti in precedenza aveva già proposto la sua collezione al re di Francia che aveva però declinato l'offerta.Qualche anno dopo tutte le maggiori capitali europee iniziarono a raccogliere i reperti egizi per creare a loro volta collezioni e musei.
A ampliare e completare la fantastica raccolta fu però Ernesto Schiapparelli con alcune importanti campagne di scavo in Egitto tra il 1900 e il 1920 facendo così del museo egizio quello straordinario scrigno che il mondo ci riconosce.
Cimitero di San Pietro in Vincoli
A pochi passi dal rondò dla forca si trova una costruzione oggi adibita ad ospitare eventi culturali ma che in realtà fu il primo cimitero costruito fuori dalla cinta muraria della città.
Nel 1776, a seguito della legge che vietava,per motivi igienici,la pratica allora in uso di tumulare i morti presso le chiese,il re Vittorio Amedeo III, ordinò la costruzione di appositi luoghi adibiti alla sepoltura dei defunti e fu dato all'architetto Francesco Dellala incarico di progettare il cimitero.
Il nuovo cimitero era però di piccole dimensioni e così in pochi anni risultò sovraffolato e molto carente dal punto di vista igienico sanitario in quando i cadaveri sepolti in modo caotico e approssimativo emanavano un fetore insopportabile per gli abitanti delle case vicine.
Con la costruzione del cimitero Monumentale a partire dal 1829,il cimitero di San Pietro in vincoli cadde in uno stato di abbandono e dal 1835 fu definitivamente chiuso al pubblico,ma fino al 1852 fu utilizzato per la sepoltura dei condannati a morte.
Da quel momento questo luogo fu teatro di atti di vandalismo e profanazione in oltre fu anche utilizzato per la celebrazione di messe nere il tutto fino al 1988 anno in cui fu decisa una radicale ristrutturazione e gran parte dei resti fu traslata presso il Monumentale tranne le cripte del prato centrale che furono sigillate.
Per molti anni in questo luogo fusono ospitate le sepolture delle più importanti famiglie cittadine (Saluzzo di Paesana,Alfieri di Sostegno,Vernazza ecc...) e al ingresso vi era una cappella al cui interno era presente una statua in stile neoclassico detta la Morte Velata,in pratica una figura di donna con il volto coperto da un velo che le conferiva l'aspetto di un fantasma.Tale statua fu realizzata dallo scultore Innocenzo Spinazzi nel 1794 per commemorare la Morte prematura della principessa russa Varvara Belosel'sikij di anni 28 e moglie del ambasciatore russo presso la corte sabauda.Nel 1975 la statua fu trasferita nei sotterranei della mole antonelliana.Ma siamo a Torino e quindi la leggenda racconta che ancora oggi il fantasma della principessa passeggi intorno al cimitero.....
Piazza Statuto
Piazza Statuto si trova ad occidente rispetto al centro della città é qui che in epoca romana finiva la cinta muraria della città e dove oggi sorge la nuovissima e modernissima stazione di Porta Susa si trovava la Porta Segusina,dalla quale partiva una delle più importanti strade romane la via delle Gallie.
Ma a occidente e anche dove il sole tramonta, iniziano le tenebre e per gli antichi era segno che questa era una zona infausta,il confine tra il mondo del bene e quello del male.
Fuori dalla porta Segusina venivano infatti giustiziati i condannati a morte e vi venivano tumulati i defunti.Qui iniziava una grande necropoli che andava dal odierno corso Francia fino in via Cibrario e corso principe Eugenio.
Ma tutta quest' area una zona di morte basti pensare che all' incrocio tra via Cigna e corso Regina Margherita si trovava il patibolo,oggi per i torinesi quel area è il L'rondò dla forca.
Quindi per gli iniziati Piazza Statuto è considerata il centro della magia nera della città in contrapposizione con Piazza Castello considerato il cento della magia bianca
Il fulcro della piazza e il monumento ai caduti del Frejus,quegli uomini morti durante la costruzione del traforo che ancora oggi e una delle vie più importanti tra Italia e Francia,sulla sommita di questo monumento si trova un angelo che per alcuni sarebbe Lucifero il più bello degli angeli scacciato da dio dal paradiso. Questo angelo nella mano destra tiene una penna oggetto che rappresenta il sapere e la conoscenza,mentre la sinistra sembra fermare gli uomini che cercano di scalare la vetta del monumento quindi verso la conoscenza un atteggiamento quello del'angelo che secondo gli studiosi di esoterismo vorrebbe impedire agli uomini di arrivare alla conoscenza.Un ultima notizia su questo monumento che non tutti i Torinesi sanno e che i massi con cui e fatto arrivano proprio dallo scavo del traforo stesso.
Altro punto di interesse esoterico di questa piazza si trova nel aiuola di fronte al monumento dove al centro della stessa si trova un obelisco con in cima un astrolabio proprio sotto questo monumento si trova uno dei principali ingressi alla rete fognaria della città ma,in antichità, questo punto era anche considerato l'ingresso agli inferi....un caso?.