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giovedì 30 maggio 2013

Torino e il Santo Graal


Analizzando il rapporto tra la Sindone e i Templari, una delle teorie di cui occorre dar conto collega il lenzuolo funerario al Graal. Il termine Graal deriva dal latino medievale “gradalis” che significa vaso o recipiente per bere. Una tradizione consolidata identifica il Graal con la coppa usata da Cristo durante l’Ultima Cena, il che si attaglierebbe alla rappresentazione classica dei Templari ritratti come depositari delle principali suppellettili venute a contatto con Gesù durante la sua esistenza. Un altro filone leggendario interpreta il Graal come il recipiente adoperato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue versato da Cristo in conseguenza dei patimenti che gli furono inflitti dai Romani durante la Passione. La prima tesi contrasta con la considerazione di carattere culturale che riporta il concetto di “coppa rituale” alla tradizione celtico-germanica mentre la seconda interpretazione, che riconosce nel Graal la coppa con cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo, è coerente con le norme contenute nei due libri del Pentateuco ebraico, il Deuteronomio ed il Levitico, che codificano precetti riguardanti le pratiche funerarie e che prescrivono, in particolare, di raccogliere il sangue delle vittime di morte violenta affinché non vada disperso. Infatti, il “sangue di vita”, per gli Ebrei, è dimora del soffio vitale instillato da Dio nel corpo dell’uomo plasmato durante la creazione (“Ed il Signore Dio fece l'uomo dalla polvere della terra ed alitò un soffio vitale nel suo naso”, Genesi 2:7).  La figura di Giuseppe d’Arimatea è stata manipolata dalle varie tradizioni che si sono succedute attorno al concetto di Graal e che alimentarono il ciclo letterario celtico-francese sviluppatosi tra il XII ed il XIII secolo, dando forma a poemi cavallereschi come “il racconto del Graal” di Chrètien de Troyes. Secondo la versione provenzale, Giuseppe (o il cognato Hebron) sarebbe sbarcato nei pressi di Saintes-Maries-de-la-Mère, culle coste del meridione francese, consegnando il calice ed il suo prezioso contenuto ai sacerdoti druidici del luogo e rappresentando simbolicamente l’incontro-innesto fra il proto-cristianesimo e le radici celtiche della Gallia.  Che il concetto di coppa rituale sia connesso alla tradizione germanica è confermato dalla vicenda di re Alboino nella ricostruzione offerta dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Alboino, indossando le vesti di comandante militare e capo politico, guidò dalla Pannonia (l’odierna Ungheria) all’Alta Italia e al Piemonte il raggruppamento di aggregati clanici che le fonti definiscono con il termine etnicamente qualificante di “Longobardi”, attribuendo una precisa caratterizzazione identitaria ad un ammasso frammentato di nuclei tribali (una “nebulosa etnica segmentata”) che presentavano le ascendenze etniche più disparate ed erano accomunati soltanto dall’intento predatorio e dalla sottomissione all’elemento numericamente preponderante, che era di matrice longobarda. Basti pensare che Agilulfo, duca di Torino acclamato rex Langobardorum nel 591 per essere stato scelto come marito dalla principessa bavara Teodolinda, vedova del re Autari, viene menzionato da Paolo Diacono come “Turingio de Taurino” alludendo al fatto che la maggioranza delle fare longobarde stanziate in area torinese era composta da Turingi. Prima di incamminarsi verso Occidente, Alboino guerreggiò contro i Gepidi piegando la resistenza del rivale, il re Cunimondo, e invaghendosi della figlia Rosamunda che decise di prendere in moglie. Stando alla versione ufficiale, deformata dai ricami leggendari, Alboino contravvenne alle consuetudini che reggevano da tempo immemorabile il vivere comune presso i Longobardi e costrinse Rosamunda a brindare usando come calice il cranio del padre, svuotato dalle parti molli affinché prendesse la forma e la funzione di una coppa rituale. Era pratica comune presso i Germani che il sovrano vittorioso si impadronisse della testa del rivale sconfitto ostentandola come trofeo e trasformandone il cranio, intagliato e lavorato, in una coppa con cui banchettare. Il senso sotteso al macabro gesto è chiaramente decifrabile dato che si fondava sulla credenza che certe qualità appartenute al defunto, l’attitudine al comando, il carisma personale ed il prestigio politico, unitamente alla forza fisica, si trasmettessero materialmente alla controparte vittoriosa attraverso l’atto simbolico del bere usando come calice il cranio dell’avversario. In questo modo, si sarebbe realizzato un travaso di energia dall’uno all’altro ed il vincitore avrebbe tratto da quell’assorbimento di forza vitale la legittimazione all’esercizio del comando sulla popolazione sottomessa. Alboino, però, infranse il codice comportamentale al quale si sarebbe dovuto attenere obbligando la moglie a compiere in vece sua l’insano gesto di maneggiare il cranio del padre ed esponendosi alla vendetta di Rosamunda che, nel 572, congiurò contro di lui progettandone l’assassinio in combutta con l’amante. La scrittrice statunitense Margareth Starbird, accantonando l’interpretazione classica che accosta il Graal al calice usato da Cristo, propone una lettura diversa scindendo il termine completo che definisce la coppa, “Sangraal”, nel francese antico “Sang Raal” che significa “sangue reale”. La tesi linguistica allude alla letteratura encomiastica formatasi attorno alle origini della monarchia francese con il proposito di giustificare la pretesa di superiorità che il re di Francia, il Re Cristianissimo, vantava nei confronti degli altri sovrani cristiani d’Europa sostenendo la derivazione diretta del lignaggio merovingio, cui appartenevano i primi re Franchi, dalla stirpe regale ebraica di David, padre di Salomone. Il sangue di re David sarebbe stato portato in Francia da Maria Maddalena, la donna che asperse Gesù di unguenti profumati prefigurandone la fine.  La fantasiosa ipotesi non trova l’appoggio del sindonologo torinese Baima Bollone che ha prospettato come plausibile l’identificazione del Graal con la cassetta reliquiario che avrebbe protetto la Sindone dalla tante avversità affrontate durante i viaggi, consentendone la conservazione. Bollone si inserisce così nel filone di pensiero che fa risalire ai monaci del Tempio il possesso del telo sindonico nel periodo di tempo compreso tra la data del secondo sacco di Bisanzio (12-15 aprile 1204) e la metà del Trecento, quando è attestata l’esposizione del lenzuolo all’interno della collegiata di Lirey, nella regione francese della Champagne. Come appiglio probatorio di questa tesi è stata addotto il ritrovamento di un pannello ligneo intagliato e dipinto, datato al 1280, che è riaffiorato dalle macerie della contro-soffittatura di un cottage, parte integrante della mansio templare inglese di Templecombe, colpito dallo scoppio di un ordigno esplosivo durante la seconda guerra mondiale. Templecombe (da “Comba Templariorum”, letteralmente valle dei Templari – da segnalare è la coincidenza con il vocabolo piemontese “còmba”, ricalcato sulla radice di un termine celtico, che significa avvallamento) è una cittadina del Somerset, antica sede di un priorato templare.  Il pannello rivela l’appartenenza all’ambito templare nell’esibizione di un repertorio iconografico che riflette l’impronta del Tempio, come la cornice a quadrifoglio, ma l’elemento chiave che ha attribuito alla lastra lignea il valore di indizio probatorio capace di attestare il possibile transito sindonico nelle mani dei Templari è rappresentato dall’effige umana che compare tratteggiata da mano inesperta sulla superficie del pannello. I tratti somatici del volto, malgrado la fattura grossolana e i contorni delineati con approssimazione, sembrano ricalcare i lineamenti facciali dell’immagine sindonica torinese. Inoltre, si sono riscontrate tracce che indicherebbero l’installazione di una serratura, probabilmente montata per richiudere la cassetta, e tale constatazione avvalora ulteriormente la tesi di chi interpreta il pannello di Templecombe come l’anta di un reliquiario ligneo fabbricato in ambito templare per la conservazione di una reliquia importante, legata alla figura di Cristo, che non è inverosimile identificare con la Sindone, forse ripiegata in otto parti o quattro doppi (tetradìplon), coerentemente con la tecnica di conservazione descritta dalle fonti che permetteva di esporre alla vista dei fedeli soltanto il viso.  Un’altra notazione rafforza l’impianto probatorio: Templecombe non dista molte miglia dalla fortezza-prigione dove fu incarcerato, nel 1342 e nel 1351, il nobile francese Goffredo di Charny, dopo essere stato catturato in battaglia dagli Inglesi. Charny è segnalato dai dati in nostro possesso come proprietario del telo sindonico almeno a partire dal 1353, anche se permane l’incertezza riguardo alle modalità attraverso le quali la Sindone sarebbe pervenuta a lui, forse attraverso la moglie Jeanne de Vergy (discendente di quell’Othon de la Roche, duca d’Atene, accusato del trafugamento della Sindone dalla chiesa di Bisanzio dov’era periodicamente esposta ai fedeli) o forse tramite vie traverse, acquisizioni sul mercato clandestino delle reliquie o contatti non acclarati con la nomenclatura templare. La lettura sindonica del pannello di Templecombe, se confermata, rafforzerebbe la posizione di chi identifica il Graal con la cassetta reliquiario della Sindone, inserendosi nel filone tradizionale che rappresenta i Templari come scopritori e conservatori di reliquie, soprattutto di quelle che documentano la realtà del passaggio terreno di Cristo. Inoltre, dall’analisi del contesto storico si evince un altro elemento che concorre a chiarificare il quadro: tra le accuse fabbricate ad arte contro i Templari dalla commissione d’inchiesta insediata per volere di Filippo IV il Bello, risalta per la gravità dell’addebito la notizia di pratiche idolatriche tributate dai monaci all’indirizzo di una misteriosa rappresentazione icastica nota come “Bafometto”. Accanto ai numerosi passaggi estratti dalle carte processuali per ricostruire l’esatta natura di questo idolo barbuto che compariva come presunto protagonista di riti misteriosi celebrati dai monaci nel segreto delle loro mansiones, emerge per rilevanza l’opinione espressa da coloro che accusavano i Templari non soltanto d’essersi accostati all’Islam, recependo pratiche “esotiche” come l’abitudine di pregare chinandosi sino a toccare terra con la fronte, ma anche di aver formato un circolo di adoratori del diavolo, il gran separatore (dal greco “diaballein”, separare) che boicotta con ogni sorta di macchinazione il piano salvifico voluto da Dio per l’uomo. Il Bafometto è stato letto, nel contesto di quest’accusa, come prova del satanesimo templare. Infatti, non si sarebbe trattato d’altro che di una rappresentazione, magari un po’ caricaturale, delle fattezze del demonio, al quale si indirizzavano pratiche cultuali all’interno del Tempio. Si tenga conto che, per la Chiesa delle origini, erano soltanto tre i peccati che compromettevano la salvezza individuale: l’omicidio, l’adulterio e l’apostasia, cioè l’abiura della fede cristiana, che si poteva manifestare anche nell’indulgere a pratiche idolatriche. L’idolatria, inoltre, era considerata dai Padri della Chiesa come una forma di demonolatria perché l’idolo, cioè la rappresentazione concreta dell’astratto numen pagano, era concepito come una forma di mascheramento usata dal diavolo per convogliare su di sé le attenzioni del fedele, distogliendolo dalla contemplazione di Dio. Decisivo nel condannare l’idolatria fu l’episodio biblico del vitello d’oro, fabbricato dal popolo d’Israele che tradì la fiducia di Dio approfittando dell’assenza di Mosé. Tributare culto ad un idolo significava non soltanto esporsi al rischio della dannazione eterna e alle sanzioni penitenziali comminate ai colpevoli dalla Chiesa ma anche permettere al diavolo di impossessarsi della propria anima, rendendo indispensabile sottoporre la persona che era caduta nella trappola ordita dal demonio a pratiche di carattere esorcistico volte a liberarne il corpo dalla possessione.  Dunque, aldilà della rappresentazione del Bafometto come maschera del demonio, come testa di donna o come idolo barbuto, il merito della condanna inflitta ai Templari non mutava: erano demonolatri perché adoravano un idolo. E’ ovvio che il significato del Bafometto sia stato travisato dagli avversari del Tempio, come è stato acclarato dai ricercatori, oggi propensi a considerarlo come una delle tante reliquia di cui i monaci si appropriarono durante la permanenza in Terrasanta (Centini ritiene probabile la sua identificazione con il teschio di Santa Eufemia).  Proprio il presunto legame che s’instaurò tra i Templari e la Sindone potrebbe aiutarci ad interpretare la reale natura del Bafometto. Infatti, non è inverosimile pensare che il Bafometto fosse la rappresentazione di un viso umano, maliziosamente scambiato dai detrattori del Tempio per un idolo, ma in realtà identificabile con un’immagine acheropita, cioè non fatta da mano umana, del Cristo. Se questa intuizione fosse confermata, si potrebbe concludere favorevolmente alla identificazione del Bafometto con la Sindone torinese.  La relazione tra la Sindone, il Bafometto e la cassetta reliquiario di Templecombe potrebbe trovare un momento di sintesi e di conferma proprio a Torino, se si interpretasse la statua della Carità (o della Religione) che sorge dirimpetto la chiesa della Gran Madre di Dio, sul lato destro della scalinata antistante il tempio supponendo di discenderla o sul lato sinistro supponendo di fronteggiare il prospetto principale dell’edificio, come un concentrato di segni di non facile decifrazione che sarebbero stati sistemati in quel punto per indicare al sapiente, desideroso di scoprire il nascondiglio del Graal, il cammino da intraprendere per raggiungere la meta, sia che si tratti di un oggetto tangibile sia che si tratti di uno stadio superiore di conoscenza. Nessuno ha ancora appurato se sia lo sguardo della statua, fisso sull’orizzonte definito dalla cornice maestosa della catena alpina, o l’atteggiarsi della figura femminile, che è la personificazione della Carità, a fornire indizi sul tragitto da intraprendere per ritrovare il Graal ma l’idea che Torino possa accogliere anche questo importante segno legato alla vita di Cristo, oltre a quella Sindone che lo avvolse cadavere, assistendo alla sua Resurrezione, non è priva di fondamento razionale. Ciò che è sacro e che attiene alla sfera divina è “fascinans et tremendus”, affascinante e tremendo nello stesso tempo. La statua sorregge con la mano sinistra un calice mentre il ginocchio destro sostiene il peso di un libro aperto, che potrebbe simboleggiare la ricerca incessante della conoscenza. Il percorso mostrato dallo sguardo enigmatico della statua potrebbe non essere un tragitto concreto, che si snoda tra le vie e i corsi della capitale sabauda, alla ricerca di un luogo fisico dove un oggetto tangibile sia stato occultato da una mano misteriosa, ma potrebbe segnalare un itinerario spirituale, che travalica la concretezza dell’hic et nunc e che conduce alla sapienza, intesa o in senso teologico come capacità di elevarsi verso Dio o in senso pratico come capacità di vivere bene, applicando le regole del buon senso. Lo sguardo imperturbabile della statua, chiuso nell’orizzonte enigmatico della città sabauda, potrebbe indicare che la ricerca del Graal, inteso non come oggetto ma come fonte della sapienza, non è basata sull’applicazione meccanica di regole prestabilite che disegnano un percorso già tracciato, ma che è concessa a ciascuno di noi la libertà e la capacità di costruire il proprio personale itinerario verso la conoscenza

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