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venerdì 14 giugno 2013

Caffe storici di Torino un pezzo di storia.


Il Bicerin di Cavour

Il turista che arriva a Torino rimane affascinato nello scoprire parecchi caffè e locali storici di altra epoca. Infatti il caffè a Torino è soprattutto ottocentesco, sopravvive e prospera a testimonianza della sua tradizione che evidenzia la vocazione storica e culturale della capitale piemontese.
Questa caratteristica si può notare ancora oggi in alcuni suoi antichi locali quali: Del Cambio, Al Bicerin, Baratti, Fiorio, Platti, San Carlo, Torino, Mulassano e San Giorgio (al Valentino).
Tra le mura di questi famosi caffè tra il sorseggio di un liquore o di un the accompagnato da deliziosi pasticcini o di semplici caffè, i politici di un tempo discutevano delle sorti del regno Sabaudo, gli artisti prendevano appuntamenti e la ricca borghesia si soffermava a discutere d'affari. Ne citiamo brevemente alcuni per ordine di nascita. Visitare questi locali e come fare un salto indietro  nel tempo  poter vedere arredamenti e locali cosi come li vedevano le dame i i signori del sette ottocento

Caffè ristorante Del Cambio

Nasce nel 1757, è situato sulla piazza davanti al Palazzo Carignano, sede del primo Parlamento Italiano. Il signorile locale ha una ambientazione molto raffinata con grandi specchiere, decorazioni, stucchi e affreschi; ebbe illustri frequentatori e principalmente il Conte Camillo Benso di Cavour del quale è indicato con targhetta in bronzo il posto abitualmente da lui occupato e dal quale poteva vedere il balcone del palazzo Carignano da dove si affacciava il suo segretario per chiamarlo quando era necessaria la sua presenza in aula . Ora il locale fa solo più servizio di ristorante.

Caffè confetteria Al Bicerin

Posto sulla piazza del santuario della Consolata è nato nel 1763; il locale, di indubbio valore storico ci è giunto esattamente come era allora. Qui è stato servito per la prima volta il Bicerin (piccolo bicchiere). Tale tradizione non si è persa e ancor oggi è possibile, qui e in molti locali torinesi anche non del centro città, apprezzare questa bevanda. Tra i frequentatori del locale si può ricordare Giacomo Puccini,Cavour ,che attendeva seduto a un tavolo l’uscita della famigla reale dalle funzioni della Consolata fino ad arrivare  a Mario Soldati, Macario e tanti altri personaggi che hanno lasciato la loro impronta nel caffè storico.

Caffè gelateria Fiorio

Posto sotto i portici della via Po è nato nel 1780, fu il più aristocratico in Torino meta di nobili, diplomatici e intellettuali. Lo chiamavano il caffè dei codini e dei Machiavelli. Era la fucina dell'opinione pubblica di Torino, tanto che si usava dire: cosa si dice al Fiorio? Qui infatti presero vita i primi moti che portarono al’ unita d’Italia

Caffè San Carlo

Situato sotto i portici della magnifica piazza omonima, fu inaugurato nel 1822; è stato il primo caffè d'Italia ad adottare (1832) la luce a gas. Fu salotto intellettuale percorso da forti formenti di patriottismo, una delle roccaforti del Risorgimento. Con i suoi preziosi marmi, statue e dorature è considerato il più prestigioso salotto di Torino, fu molto danneggiato nel secondo conflitto mondiale e restaurato completamente nel 1979

Caffe Plattì.

In Corso Vittorio Emanuele, fu aperto nel 1870. Il caffè, vicino al prestigioso liceo d'Azeglio, ebbe tra i suoi clienti affezionati anche il Senatore Giovanni Agnelli, fondatore della F.I.A.T., Luigi Einaudi e Cesare Pavese. Probabilmente fra queste sale germogliò la grande azienda automobilistica.

Caffè confetteria Baratti

Posto fra la Galleria Subalpina e Piazza Castello, fu aperto nel 1875 da Ferdinando Baratti e Edoardo Milano; il signorile locale si distinse subito per la sua classe tanto da ottenere l'ambito titolo di Fornitore della Real Casa.

Caffè Torino

Posto sotto i portici della Piazza San Carlo è stato inaugurato nel 1903; è il salotto elegante in cui tutta la città bene del passato e di oggi si è soffermata e si sofferma. È sempre stato sinonimo di eleganza e di servizio impeccabile.

Caffè Mulassano


Sotto i portici della Piazza Castello verso la via Po, fu aperto nel 1907. È un ambiente particolarmente prezioso e accogliente, ricco di marmi, decorazioni floreali in bronzo e con il soffitto a cassettoni. Era ritrovo abituale negli anni di Casa Reale dei notabili di Corte e degli artisti del vicino Teatro Regio.




giovedì 13 giugno 2013

Il Rondò della Forca e l'invenzione del pan carré




 


Qualche tempo fa abbiamo parlato di piazza Merano, la piazza che esiste solo sugli stradari. Questa settimana tocca invece al Rondò della Forca, toponimo per la prima volta sdoganato da google maps, che lo ha ufficialmente inserito nelle sue cartine elettroniche anche se questo luogo non ha mai avuto dignità di piazza o di slargo.

Per chi non lo sapesse, si tratta dell’incrocio tra corso Regina Margherita, corso Valdocco (con il suo proseguimento via Cigna) e corso Principe Eugenio: il nome deriva dal fatto che sino al 1863 vi si tenevano lì le pubbliche impiccagioni. Tanto che nel 1960, alla confluenza di corso Valdocco con corso Regina Margherita, è stato inaugurato un monumento dedicato a San Giuseppe Cafasso, conosciuto come il “prete della forca” in virtù della sua assistenza spirituale ai carcerati e ai condannati a morte. Cafasso nel 1948 è stato pure dichiarato patrono delle carceri italiane.

Il rito dell’esecuzione aveva le sue precise ed immutabili regole: il condannato, con il laccio al collo e le mani legate, percorreva le vie della città sino al rondò su un carro mentre la campana municipale mandava i suoi rintocchi, poi il sindaco della Arciconfraternita della Misericordia gli bendava gli occhi.
Nella notte tra il 2 e il 3 maggio del 1945 al Rondò della forca ci fu un'ultima esecuzione (ma senza cappio) postuma: la sedicenne Marilena Grill, colpevole secondo alcuni di essere una spia, in realtà una semplice ausiliaria della Repubblica Sociale Italiana, venne fucilata dai partigiani.

Ci spostiamo ora di poche centinaia di metri: al numero 2 di via Bonelli abitava Piero Pantoni, l’ultimo boia di Torino, 150 esecuzioni sul groppone e una moglie che per la vergogna non usciva mai di casa. La vicina chiesa di Sant’Agostino era detta la “chiesa del boia”, in quanto nei suoi pressi vi venivano sepolti i condannati a morte e i detenuti defunti in carcere: qui il boia cittadino si era guadagnato il diritto ad avere un banco tutto per sé e ad essere sepolto sotto il campanile. Chissà perché, ma sembra che l’unico amico del Pantoni fosse un certo Caranca, il becchino di Rivarolo…
In epoca napoleonica in piazza Carlina funzionava invece la ghigliottina, mentre i roghi e gli squartamenti avvenivano nelle piazze San Carlo e Castello.

Cambia la zona, ma non la considerazione popolare per il mestiere di boia. In alcuni negozi, per ricevere i suoi soldi, gli veniva passata una scodella che serviva a lavare il denaro proveniente dal suo ruolo istituzionalizzato di assassino. E alle mogli dei boia i panettieri porgevano il pane al contrario: allorché un’ordinanza lo vietò perchè atto foriero di sventure, i più intraprendenti di loro si misero a cuocerlo a forma di mattone, in modo che fosse sempre girato a testa in giù. Da qui, secondo la leggenda, la nascita del pan carrè, quello utilizzato per i toast.
“Meglio avere la moglie del boia come cliente, che essere clienti del boia”, dicevano allora i più timorati. Di Dio e degli uomini. 

 

mercoledì 12 giugno 2013

Quando e come è nata Torino?


 

Normalmente Torino è definita come città “romana e barocca”. E’ evidente che l’epoca romana ha lasciato un segno indelebile nella città, proprio a partire dalla sua toponomastica. Tuttavia,come spesso accade, l’origine di Torino è precedente all’epoca romana.

Infatti, la nascita di Torino, sebbene molti la facciano coincidere con la città romana di Augusta Taurinorum, è in realtà precedente e, come tutte le origini, si perde nella leggenda e nella nebbia. Probabilmente, come argutamente nota Renzo Rossotti nella sua “Storia insolità di Torino”, si tratta di “un corso d’acqua (per Torino addirittura due!), qualche capanna, un villaggio: così per Roma, Parigi, Londra, nate sulle rive di un fiume di primaria rilevanza”.

Una antica leggenda mitologica lega Torino ed il Po al mito di Fetonte, figlio del dio Sole, che dopo lunga insistenza ottiene dal padre il permesso di guidare il suo carro fiammeggiante. Incapace tuttavia di guidarlo e soprattutto di domare i focosi cavalli, Fetonte perde completamente il controllo e le briglie, rischiando così di incendiare tutta la terra. Zeus è quindi costretto ad intervenire per salvare la situazione, facendo precipitare Fetonte ed il suo carro nel fiume Eridano, ossia il Po.

Al di là delle leggende mitologiche, sicuramente le radici di Torino sono legati ai Taurini. Il popolo dei Taurini non ha ancora oggi una chiara ed univoca identificazione. Indubbiamente sono un popolo legato tanto ai Celti quanto ai Liguri. Secondo alcune interpretazioni, l’aggettivo taurinus potrebbe indicare un gruppo di gente proveniente dalle alture, dalle montagne ed essere quindi un sinonimo di montanus, cioè di “montanari”, forse derivante dall’aramaico “taur” o dal celtico“thorche indica prprio un luogo di montagana,Secondo alcuni il nome di questo primo villaggio (o gruppo di capanne) sorto vicino alla confluenza di due grandi fiumi, in territorio pianeggiante ai piedi delle Alpi, avrebbe assunto i nomi di Eridania (dal nome del fiume Eridano, cioè il Po) oppure di Fetonzia (dal mito di Fetonte) o, più probabilmente, di Taurasia. Tutti questi nomi sono riportati da antichi scrittori e da antiche fonti più o meno attendibili.

Livio e Polibio definiscono la futura Torino come la città più forte dei Taurini, il loro “capoluogo”. Secondo lo storico Strabone (circa 60 a.C.) e anche secondo Plinio, i Taurini sarebbero indiscutibilmente legati al ceppo dei Liguri che, spingendosi verso nord nell’entroterra sono approdati in questo luogo pianeggiante dove hanno realizzato un villaggio. La commistione tra Celti e Liguri è documentata, secondo alcuni storici, dalla presenza in molti nomi di luoghi piemontesi, tanto dai suffissi -asco (tipici liguri) quanto dal suffisso -aco (tipico invece delle zone celtiche).

In sintesi, si potrebbe quindi pensare che Torino sia nata dal popolo dei Taurini, formatosi dalla commistione di popolazioni liguri con gruppi e mescolanze di celti discesi dal nord. Già dalle sue origini, quindi, Torino si presenta come crogiuolo entro cui si fondono e si amalgamano culture e popoli differenti. E’ già allora un crocevia di civiltà…

Fonte F. venuti

sabato 8 giugno 2013


Nostradamus a Torino?

 Nostradamus, al secolo Michel de Nostredame o Miquèl de Nostradama in occitano (Saint-Rémy-de-  Provence, 14 o 21 dicembre 1503 Salon-de-Provence, 2 luglio1566), è stato un astrologo, scrittore,   farmacista e speziale francese .Ma è stato il più importante veggente di ogni tempo le sue centurie sono ancora oggi al centro di numerosi studi per scoprirne i più nascosti segreti e molte generazioni di studiosi si sono cimentati nella traduzione di queste opere. Nostradamus con buona probabilità ebbe anche una parentesi Torinese con un soggiorno che sarebbe avvenuto nel 1556. Ma Nostradamus venne davvero a Torino, perché ci sono alcune testimonianze scritte che parrebbero avvalorare questa visita vediamole.

Un valido punto di partenza è senza dubbio costituito dall’articolo di Corrado Pagliani, comparso nel n. 1 della rivista “Torino” del 1934. In questo  articolo l’autore ricostruisce il possibile (probabile?) soggiorno torinese di Nostradamus, partendo da una lapide originariamente collocata su un androne di una cascina situata all’epoca (siamo a metà del Cinquecento) alla periferia di Torino. Tale cascina, nota come cascina Morozzo, resisterà sino agli anni Sessanta del Novecento, per essere poi  abbattuta per far posto a palazzi della nuova periferia torinese dove i nuovi cittadini venuti dal sud a lavorare alla Fiat o in altre aziende sviluppatesi con il bum economico,venivano ad abitare dove secoli prima si era fatta la storia.

L’articolo in questione è un valido punto di riferimento, tanto da essere ripreso e riproposto numerose volte tra l’altro da Spagarino Viglongo, da Tirsi Caffaratto, da Bellagarda, oltre a esser citato anche da altri autori, dal tono più esoterico, come Giuditta Dembech.Di cui sotto è riportata la fotografia della lapide
Nel suo articolo il Pagliani riporta la riproduzione di un dagherrotipo ottocentesco che si presumeva fosse l’esatta fotografia dell’originale, (cosa che si rivelerà in seguito errata), comparso sulla rivista Le Courrier de Turin del 26 dicembre 1807 (questo particolare risulterà, come vedremo, molto importante), con tanto di testo che sarebbe stato dettato dallo stesso Nostradamus) e che recita così:

              1556

NOTRE DAMUS A LOGE ICI

ON IL HA  LE PARADIS LENFER

LE PURGATOIRE IE MA PELLE

LA VICTORIE QUI MHONORE

AVRALA GLORIE QUI ME

MEPRISE OVRA LA

RUINE HNTIERE

a cui traduzione dovrebbe corrispondere a:

              1556

NSTRADAMU ALLOGGIA QUI

DOVE IL PARADISO L’INFERNO

IL PURGATORIO IO MI CHIAMO

LA VITTORIA CHI MI ONORA

AVRA LA GLORIA CHI MI

DISPREZZA AVRA LA

COMPLETA ROVINA

In realtà la prima testimonianza scritta circa il soggiorno torinese di Nostradamus risale addirittura al 1786, pubblicata nel Noveau Dictionnaire Historique (citazione da O. Mattirolo7, 1928).

La seconda testimonianza in ordine di tempo e relativa alla lapide risale al già citato articolo del Courrier del 18078 in cui un certo H. Carena riporta anche le misure della stessa: 20 pollici (51 centimetri) di larghezza per 15 pollici (38 centimetri) di altezza.

Una terza citazione si può ritrovare in un articolo pubblicato sul quotidiano “La Stampa” del 3 giugno 1932 in cui tale C. O., in occasione degli imminenti lavori di ristrutturazione dell’intera area su cui sorgeva la cascina Morozzo, si sofferma sulla leggendaria figura di Nostradamus e sul suo soggiorno torinese. Ma ritorniamo all’- articolo del Pagliani del 1934; in esso l’autore riporta la notizia che il Carena o Carrera dopo il 1807 inviò a Le Courrier de Turin (27 gennaio 1808) una seconda lettera in cui riporta il parere di un lettore, che in seguito alla lettura della prima lettera uscita sullo stesso giornale nel dicembre 1807, precisa quanto segue: «Quantunque la storia di Provenza non menzioni il soggiorno a Torino del famoso medico, abbiamo nondimeno parecchi aneddoti che ci provano ch’egli vi si è trattenuto per qualche tempo, che fu ben accolto alla Corte dei Savoia e che passò qualche giorno alla casa di campagna oggi Morozzo, appartenente in altri tempi alla principessa Vittoria di Savoia. Son d’avviso che il nome della detta campagna (Vittoria), la posizione e la distribuzione delle terre sotto la denominazione (di regioni) del Paradiso, Purgatorio ed Inferno, han dato occasione a Nostradamus di comporre l’iscrizione ».

Il Pagliani precisa anche che una sua personale ricerca presso gli archivi del Comune circa l’esistenza di una Principessa Vittoria di Savoia risulterà vana, non trovando traccia di principesse con tale nome, contemporanee o anteriori alla data dell’iscrizione.

Comunque sia andata, l’autore precisa inoltre che le dimensioni della lapide (50 x 35 cm), rilevate da lui stesso nel 1934, risultano di poco inferiori a quelle riportate dal Carena nell’articolo su Le Courrier de Turin del 1807 e che pertanto era possibile pensare che nel frattempo la lapide fosse stata rimossa, riquadrata e collocata in un luogo diverso dal primitivo.

Per quanto riguarda invece il testo, occorre fare un’altra interessante precisazione: il Pagliani si limita a riprodurre quanto riportato sul Courrier, senza accorgersi che in realtà alla terza riga non stava scritto “ON IL HA LE PARADIS” bensì “ON IL I I A LE PARADIS”; non solo, ma quando avrà in mano la lapide originale da misurare non si accorgerà neppure che l’H di “MHONORE” della quinta riga in realtà era sovrastata da un accento circonflesso (MHONORE). Queste due piccole differenze, apparentemente senza molta importanza, in realtà ne hanno moltissima in quanto uno dei più noti interpreti di Nostradamus, ritenendo che il testo della lapide (quello con “IL HA” e senza accento circonflesso) nascondesse un messaggio criptato da decifrare, con relativa “chiave” per interpretare le famose quartine, riportando su carta millimetrata il testo stesso e calcolando opportunamente il numero delle lettere, le cadenze e le spaziature ha identificato (a suo dire) tale chiave. Peccato che il tutto fosse basato su di un testo, quello appunto riportato dal Pagliani, che poi si rivelerà errato.Lascio alla fantasia del lettore immaginare l’attendibilità delle conseguenti interpretazioni

E se la fantasia non fosse sufficiente riporto testualmente quanto scritto nel libro della Dembech6: «ci sono invece delle diversità fra la fotografia ottocentesca e l’autentica lapide di marmo, differenze tali da stravolgere completamente sia il senso della “chiave” che di conseguenza, le interpretazioni fin qui ricavate...».

Ma ritorniamo ancora una volta al Pagliani; suo indubbio merito resta quello di aver fotografato la cascina Morozzo, prima della sua demolizione, da due diverse prospettive (dal lato di via Lessona e dal lato del parco della Pellerina), e la sua risulta, assieme a quella prodotta dal Bellagarda nel 1968, la sola documentazione fotografica esistente a ricordo del possibile passaggio torinese del celebre medico occultista. Della famosa lapide non si saprà più niente per una trentina d’anni (da molti fu data per dispersa, da altri se ne metteva in dubbio addirittura l’esistenza) finché, nel 1967, il Bellagarda non riuscì a rintracciarla nella casa dell’ultimo proprietario della Cascina, l’avvocato Momigliano, in via Don Minzoni. La lapide fu infine “riscoperta” e fotografata nel 1975, grazie alle ricerche di Renucio Boscolo, autodefinitosi l’interprete ufficiale di Nostradamus, e pubblicata da Giuditta Dembech nel suo libro del 1978. In conclusione, di citazioni relative al soggiorno torinese di Nostradamus ce ne sono molte ma gira e rigira si tratta sempre degli stessi episodi che, in definitiva, fanno capo ad un solo elemento concreto ovvero l’esistenza della pluricitata lapide.




Vi sarebbero inoltre tre accenni indiretti, ma tutti e tre molto dubbi. Il primo è quello contenuto nel Nouveau Dictionnaire Historique citato dal Mattirolo, che però parla di una venuta a Torino di Nostradamus per controllare la gravidanza di Margherita di Valois, consorte di Emanuele Filiberto, nel 1562 quando in realtà Emanuele Filiberto consultò effettivamente Nostradamus per la nascita del figlio, ma nel dicembre del 1561 e a Nizza, non a Torino (come risulta dalla monumentale opera del Guichenon 1660). Un secondo accenno è quello che compare sul già citato Courrier de Turin del 1808 ad opera del Carena, ma anche in questo caso si tratta di un parere di un lettore (oltretutto anonimo) e nulla più; l’ultimo è quello riportato dalla Dembech la quale sostiene che il motivo della visita a Torino di Nostradamus nel 1556 era legato alle pratiche alchemiche del tempo (l’alchimia era effettivamente uno dei suoi grandi interessi), anche se il motivo ufficiale era una visita alla moglie di Emanuele Filiberto, la duchessa Margherita... ora mi domando come poteva essere questo il motivo ufficiale visto che Margherita di Francia sposerà Emanuele Filiberto soltanto tre anni dopo, il 10 luglio 1559!

Dunque Nostradamus visitò davvero Torino? Dettò davvero l’iscrizione sulla famosa lapide? Con buona probabilità non lo sapremo mai! Ecco un nuovo mistero che si aggiunge a quelli già per altro numerosi di questa  Fantastica città

giovedì 6 giugno 2013

I fantasmi della Rotta


Torino è anche la città dei fantasmi,infatti molti dei suoi palazzi hanno ospiti di un'altra dimensione entità di un passato lontano molte volte vittime di violenze e di efferati fatti di sangue. Tra i più famosi potremmo ricordare la donna velata di san Pietro in vincoli, i fantasmi del carcere delle nuove,quello di palazzo Barolo. Ma nei pressi di Torino si trova un luogo che secondo i cultori dello spiritismo è il castello più infestato d’Italia, posto di cui esistono fotografie molto interessanti e esplicite, un luogo dove chi scrive è stato e da dove e fuggito per il senso di malessere e di angoscia che esso emana. Sto parlando del CASTELLO DELLA ROTTA situato a Moncalieri a ridosso dell’autostrada  Torino Savona
Il castello, costruito nel IV secolo, fu possedimento prima dei Longobardi e poi dei Cavalieri di Malta che lo ebbero per tre secoli fino al 1500 quando la  proprietà passò alla famiglia dei Savoia. Fu in seguito trasformato in deposito di polvere da sparo nel 1706, durante l’assedio che fu anche teatro del gesto di Pietro Micca . Tra queste mura venne imprigionato dallo stesso figlio, Vittorio Amedeo II di Savoia, Re di Sardegna, che impazzì e morì completamente folle. Il castello aveva il fondamentale compito di difendere il ponte sul fiume BANNA, il ponte infatti era l’unico passaggio  della strada romana che arriva da Pollenzo. Nei primi anni cinquanta  cadde in uno stato di rovina ma per fortuna fu acquistato negli anni ’70 da Augusto Oliviero che ne è l’odierno proprietario , Oliviero lo restaurò e lo allontanò definitivamente dal degrado che lo stava distruggendo, quando era in completo stato di abbandono, chiunque vi aveva accesso e anche una semplice visita con tutte le buone intenzioni poteva diventare pericolosa. Il castello fu scenografia di molte battaglie, una delle quali gli avrebbe persino attribuito il nome, "Rotta" che per l’appunto vuol dire  “sconfitta”. Una leggenda vuole che questa disfatta sia stata quella subita da Tommaso di Savoia dai francesi nel 1639. Questo castello che già porterebbe un infausto nome di sventura mostra agli occhi del visitatore anche un aspetto macabro e oscuro. Un aspetto che, anche di giorno, mette a disagio e se non si è predisposti a questo tipo di luoghi costringe ad allontanarsi il più velocemente possibile.
Il nome potrebbe provenire anche da altri significati, tra cui ROTHA ovvero roggia, che significa anche "luogo aperto", dopotutto si trovava proprio su un'ampia e vasta pianura.

La sua struttura possente è  prettamente finalizzata alla difesa, con torre di vedetta, ponte levatoio e grande cortile interno. Possiede molte sale e una cappella,come molte costruzione della sua epoca. Ma il castello della Rotta è divenuto famoso soprattutto per una grande quantità di foto di presunti spettri che hanno fatto capolino dalle sue finestre e che hanno impressionato anche i più scettici.

Un castello appartenuto ai Cavalieri di Malta
Nel 1196 il castello fu donato dal Vescovo Arduino di Valperga, insieme ad altre proprietà, ad Alberto, Maestro della milizia del Tempio, divenendo possedimento dei Cavalieri di Malta. Poco distante vi è il paesino della Gorra,molto probabilmente magione Templare. E’ facile trovare documentazione che comprova questa cessione, inoltre sui pilastri d’entrata vi sono scolpite croci patenti a firma dell’appartenenza del luogo all’Ordine. Anche l’interno riporta immagini e scritte correlate alle crociate.
Le leggende del fantasma del cavaliere e del suo cavallo

Qui si svolsero moltissimi fatti d'arme con conseguenti morti violente; non solo il campo è intriso del sangue dei soldati, ma in esso furono sepolti molti uomini, fatto recentemente comprovato dagli scavi che hanno riportato alla luce  diversi cadaveri, tra i quali spiccò la figura di un cavaliere ancora con il suo cavallo e con una croce di ferro al collo, i  resti sono stati datati tra il XV e il XVI secolo. Quando questo soldato fu riesumato colpì molti  perchè da sempre nelle cascine vicine  si narrava di un fantasma di un cavaliere a cavallo vagante per il maniero, con la stessa croce di ferro al collo, questa circostanza, non solo è dichiarata da testimonianze oculari di residenti della zona, ma anche da documenti del passato, che hanno sempre attribuito alla Rocca la fama di castello più infestato d’Italia.         


Si narra che in passato qui vi giunse una marchesina francese che doveva  sposare il padrone del maniero. Lei però innamorata e corrisposta da un cavaliere crociato lo rifiutò, probabilmente anche perché il nobile era vecchio e zoppo, mentre il suo fidanzato era bello e coraggioso. Ma il promesso sposo, senza tanti complimenti, gettò la poveretta dalla torre! Il cavaliere appena apprese la terribile notizia si votò a Dio e partì per la crociata per combattere gli arabi infedeli. Si dice che che il cavaliere col cavallo sia proprio questo triste uomo che desiderò farsi seppellire qui accanto alla sua amata. Esiste una leggenda parallela  che ha il nome di “Leggenda del frate della Rotta”. In questo caso era però il signore del castello ad essere bello e coraggioso che si innamorò di una bellissima e giovane nobildonna. Venne organizzato il fidanzamento a corte con sfarzo e balli. Ma la distrazione del gozzoviglio facilitò un assedio a sorpresa da parte dei saraceni, alcuni dei quali inseguirono la povera  donna  fino in cima alla torre dalla quale ella  si gettò per non cadere nelle mani del nemico. Il cavaliere si battè con valore sconfiggendo tutti i saraceni, ma appena vide la sua amata distesa senza vita sul ponte levatoio, abbandonò la sua roccaforte e partì in Terra Santa facendosi monaco guerriero templare per vendicarsi di tutti gli infedeli che avevano portato questo profondo dolore nella sua vita.
Queste leggende sono simili, un poco diverse, ma si accomunano per i particolari più importanti, come la caduta dalla torre di una fanciulla triste e disperata e un cavaliere templare che combatte gli infedeli. Il male dapprima trionfa sottraendo ciò che di più prezioso possediamo, ma l'uomo, stimolato da questo profondo dolore trova la forza per combatterlo e sconfiggerlo. Il cavaliere viene poi seppellito con tutto ciò che ha, una croce e il suo fedele destriero. Inseguirà l'amore per l'eternità e troverà pace solo dopo aver consumato la propria vendetta.Del cavaliere si sentirebbe risuonare il rumore degli zoccoli nelle stanze interne, è a cavallo, ha una spada in mano e una croce di ferro sul petto.
Gli altri fantasmi del castello e il corteo di spettri del 12 giugno

Egli non sarebbe stato "avvistato" da solo, sempre secondo diverse testimonianze, sarebbe affiancato da altri spettri di frati, suore, nobili, soldati e cavalieri, tutti personaggi morti in situazioni tragiche e sventurate. Tutti questi fantasmi, nelle notti di giugno, formerebbero una processione in queste zone. Ognuno ha una storia terribile… Vi è il sacerdote murato vivo nel 1400 per terribili crimini commessi, come vi è il ragazzino travolto da dei cavalli imbizzarriti, oltre al giustiziato tramite decapitazione, che vagherebbe ancora nel cortile interno con la testa sottobraccio. Insieme allo spettro del bambino vagherebbe anche la nutrice disperata che ancora piange e sospira per esserle sfuggito di mano. La donna suicida lascerebbe dietro di sé profumi di rose e gigli. Vi sono visioni di battaglie e di interi eserciti ancora in marcia. La processione di spettri avverrebbe nella notte tra il 12 e il 13 Giugno ed innumerevoli sono ancora gli appassionati di esoterismo che qui si recano proprio in queste date. Curiosi, medium, indagatori del mistero da anni si appostano nelle notti di primavera a caccia di fantasmi. E ogni minimo fumo, luce, movimento viene immortalato e portato a casa come un trofeo.Peccato che sia residenza privata e il proprietario, Augusto Oliviero, un po' stufo di questo continuo movimento di "vivi" più che di "morti", avrebbe deciso di intensificare il proprio diritto alla privacy rendendo il maniero sempre più inaccessibile. Non che lo stesso Oliviero non si sia appassionato dei fenomeni paranormali che gli caratterizzano il castello, ma se si parla di questo delicato argomento, bisogna sempre porre molta attenzione e magari a far fede a vecchie serie documentazioni, tra cui alcune effettuate da un gruppo di ricercatori milanesi che hanno recuperato diverso materiale interessante, frutto di testimonianze corredato anche da diverse fotografie. Ma a noi interessa il lato storico e ci affascina ripercorrere gli eventi, morti violente e intrighi che hanno dato un’identità oscura al castello, vicende coronate da spettri e apparizioni di questi personaggi sventurati che vediamo, anche solo con l'immaginazione, ancora vaganti tra le mura della rocca.







mercoledì 5 giugno 2013

La casa stregata,Villa Capriglio


Torino si sa che è la città magica per eccellenza, con quelle sue due facce del bene e del male rappresentate dai luoghi occulti della Magia Nera e della Magia Bianca, dell’Alchimia e della Cristianità.

Torino,proprio per la sua indole nasconde dietro ad ogni angolo,ogni cortile, ogni palazzo, leggende e misteri, ma il mistero di cui voglio parlarvi  è quello di una strana villa circondata da rovi e sterpaglie, riconoscibile per il colore giallo, tipico delle abitazioni  patrizie del primo ottocento piemontese, e lo stato di abbandono che la fanno sembrare uscita da film del terrore! (Dario Argento la visionò per i suoi film girati a Torino) E’ li come a segnare il tempo,  guardiana di un luogo che sa di magia ne custodisce la storia e misteri!

La villa si trova  dopo la galleria chiamata “Traforo del Pino”, visibile sulla  destra della strada che  scende verso Torino e la sua immagine lascia subito spazio alla  fantasia.
Se fosse una donna si potrebbe definirla una nobildonna che porta su di sé i segni del tempo, simile ad un libro dalle pagine ingiallite, in cui è racchiusa la storia della nobiltà e del decadimento della monarchia. Ma cosa si può raccontare  di una villa che ha visto tra le sue mura le avventure galanti di re e nobili dame, di sfarzi e danze o forse semplicemente di vita, gioie e dolori di quella nobiltà, della corte sabauda o di segreti incontri tra quei cospiratori che 150 anni fa fecero l’Italia proprio qui, a Torino! 

Di lei si e scritto molto e  di tutto! Dagli sfarzi della corte Sabauda alle piccanti storie dei suoi abitanti, come la leggenda che vuole fosse la dimora di una favorita del re.

C’è chi transitando di notte “tira dritto, veloce” per timore di incontrare fantasmi terrificanti! Qualcuno dice di sentire strani rumori, chi giura di sentire minuetti e risate provenire da dietro le finestre illuminate… di una casa disabitata e in rovina: fantasia o suggestione, poco importa e basta un lampo, il sibilo del vento tra le foglie, un’ombra di ramo scheletrito a rinvigorire le leggende! 

C’è chi dice che tutti quelli che vi hanno abitato sono morti tragicamente e che nessuno riesca ad abitarci per lungo tempo e “con i capelli sbiancati dal terrore” fugge da questa casa in tutta fretta,alle volte lasciando mobili e suppellettili. E c’è chi per nessuna somma di denaro metterebbe mai piede in quella casa nemmeno di giorno!

Forse è solo l’atmosfera e la suggestione” a dare vita alle immagini, ma il mistero si infittisce ancor più quando qualcuno sussurra “E’ la casa del Diavolo! Allo scoccare della mezzanotte di ogni plenilunio per alcuni minuti svanisce nel nulla e non la si vede più!”... e frettolosamente si fa il Segno della Croce, poi “allunga veloce il passo” e si allontana rifiutandosi di accompagnarvi anche solo nel cortile di questa casa misteriosa!

Villa Capriglio - sorge sulla statale del traforo del Pino, che conduce al bivio per Superga sulla destra e inizia il percorso periferico della città di Torino sulla sinistra.
Villa settecentesca dei Melina (1746) sulla cui origine aleggiano molti misteri: si dice che fosse la dimora di una favorita di Vittorio Amedeo II di Savoia. Dai Melina passò a molti altri proprietari, sino ai Cattaneo che nel 1963 la vendettero al Comune.

Si tratta di una “vigna”, ossia una residenza collinare utilizzata dai nobili e dai ricchi borghesi come luogo di piacere. Le sue mura racchiudono molti misteri, ma il più affascinante è indubbiamente quello che dice che in certe notti, allo scoccare della mezzanotte per un attimo sparisca per poi  ricomparire come d’incanto.
La villa costituisce uno dei più significativi esempi di barocco piemontese, dalle influenze Juvarriane. In origine l’ingresso era dalla strada di Mongreno. Oggi si presenta come un luogo ormai disabitato e in forte decadenza, ma lascia trasparire tutta la sua signorile bellezza architettonica esterna, visibile anche nelle decorazioni interne con bassorilievi in stucco, in voga nella prima metà del ‘700, se avrete l’ardire o la fortuna di varcare quella soglia di mistero... ma ricordate a vostro rischio e pericolo

Collocata poco distante dal Traforo del Pino e dalla città di Torino, sorge nel verde della collina con una superficie interna di oltre 1.300 mq su due piani, e con un edificio rurale di 135 mq all’interno del parco che si estende per circa 2.000 mq.
Ristrutturata da Alessio Melina, la villa è originaria del 1706, venne completata nel 1761, come residenza sulla collina di Superga. Come in uso a quell’epoca era un’abitazione posta in una proprietà agricola con annesso un rustico e circondata da terreni coltivati per lo più a vite, in seguito venne trasformata in elegante dimora per i nobili della corte sabauda.

Alle origini era chiamata con il nome dei proprietari “Vigna Marchisio”, in seguito venne acquistata da Giovanni Paolo Melina di Capriglio prendendo il nome di Villa Capriglio.
La signorilità era visibile per lo scenografico anfiteatro con getti d’acqua che la separava dalla collina coltivata a vite e dal parco secolare, ma alla morte di Melina passò al demanio. Quando la proprietà passò al comune di Torino iniziò una grandiosa impresa di restauro, ma per qualche “oscuro motivo” la villa venne abbandonata  e negli anni ’60 venne saccheggiata e devastata.

Nel 1977 ebbe un breve spazio di splendore grazie ad alcune riprese del film “Suspiria” di Dario Argento, ma l’oblio avvolse ben presto questa villa misteriosa quanto affascinante.
Nel gennaio del 1999 l’associazione “I Leonardi” iniziò degli interventi di recupero architettonico e botanico e Villa Capriglio parve risorgere dopo tre decenni di saccheggi e quasi due di discarica abusiva.

Pietro Boffelli e un gruppo di giovani artisti fonda l’Associazione Culturale “I Leonardi” e per un breve periodo quelle mura tra cui aleggiano mille leggende ospiterà le opere di giovani artisti, tra cui una performance di Diamond Dolls nella chiesa sconsacrata e una di Demon Hunter nei sotterranei, e non è mancato  l’Halloween Party che ha trasformato la villa in un luogo allucinante! Ma com’è risorta dalle ceneri, tornerà ben presto nell’oblio e forse non risorgerà più.




martedì 4 giugno 2013

I misteri del Monte dei Cappucini

L’altura boscosa del Monte dei Cappuccini, che dall’alto dei suoi 283 metri (certificati dalla misurazione satellitare del 1991) impone la sua vigile presenza alla città quietamente adagiata ai suoi piedi, assomiglia ad un avamposto di quel sistema collinare punteggiato di Ville di delizie e Vigne della nobiltà torinese che sembra assecondare il corso sinuoso del Po seguendolo fedelmente da Moncalieri sino a San Mauro Torinese. La posizione di dominio sul fiume ha attratto da sempre l’interesse di coloro che esercitavano il potere sulla piana torinese, come è chiaramente attestato sia dalle tracce di pratiche religiose pagane, confermate dal rinvenimento in loco di alcuni frammenti marmorei che, secondo lo storico di Corte Emanuele Tesauro, deriverebbero dalla frantumazione di un’ara dedicata al culto di Giove, sia dal ritrovamento di flebili segni che rivelerebbero la presenza, in età romana, di postazioni fortificate. La vocazione militare e quella religiosa s’intrecciano dunque nella storia del Monte sin dall’antichità. La funzione di controllo sul transito di persone da una sponda all’altra del fiume, facilmente esercitabile dall’altura, è testimoniata dalle fonti che riconducono alla responsabilità del sacerdote che amministrava la chiesa di San Marco e Leonardo, alle pendici del Monte, il compito di sovrintendere al servizio di traghettamento, che rimase attivo sino alla costruzione del ponte ligneo eretto nel 1037 in corrispondenza del rilievo boscoso. Il riconoscimento dei diritti feudali insistenti sull’area del Monte si estendeva anche al controllo della struttura difensiva localizzata sulla sommità dell’altura, in funzione di presidio sul transito fluviale, consacrata nelle fonti alternativamente con il nome di “Bastia”, “Bastida”, “Motta di Torino” o “Castelletto”. Della titolarità di tali poteri si trova traccia in un diploma imperiale del novembre 1248 che formalizza la concessione dei diritti sul Monte e sulla “Bastia” a Tommaso II Conte di Savoia, in veste di vassallo di Federico II. A seguito della costruzione di un ponte più a valle e della fortificazione del castello di Porta Fibellona, nel Quattrocento la rilevanza militare e commerciale del Monte si affievolisce e i Savoia concedono l’esercizio dei relativi diritti feudali a notabili locali dietro il pagamento di somme di danaro. Prima che si organizzasse un sistema di prevenzione più efficace degli incendi, la “Bastia” ospitava anche una sentinella che sorvegliava la città dall’alto dando l’allarme, in caso d’avvistamento d’un principio di fuoco, alla sottostante Rocca (da cui Via della Rocca), affinché si provvedesse allo spegnimento. L’atto di acquisto del Monte (1583), sottoscritto dal Duca Carlo Emanuele I, e la susseguente concessione dello stesso alla comunità dei Cappuccini torinesi ne consacra definitivamente la vocazione religiosa. Nel 1584, infatti, si diede l’avvio alla fabbrica, dapprima affidando i lavori al tardomanierista Giacomo Soldati e, successivamente, al Primo Architetto Ducale, Ascanio Vittozzi, che conferì all’opera quel tipico slancio verticale che caratterizza il complesso innestando sulla planimetria fortemente accentrata voluta dal Soldati un tamburo ottagonale con la funzione di sorreggere la cupola. L’aggiunta, decisa per ragioni di stabilità nel 1802, di un coronamento in muratura che copre le forme della cupola appesantì la struttura compromettendo il forte verticalismo originario. Il Seicento, secolo cruento, popolò invece il Monte di presenze sovrannaturali imprimendogli l’impronta del mistero. Nel 1619, la Principessa Cristina di Borbone, figlia del Re di Francia Enrico IV, sposò il Principe di Piemonte Vittorio Amedeo, che alla morte del padre acquisì il titolo ducale, rappresentando il segno tangibile del passaggio del Piemonte dalla sfera d’influenza spagnola a quella francese. Infatti, con Cristina il Ducato s’inserì nel contesto della contrapposizione armata tra Francia e Spagna, tentando di preservare la propria sovranità e contemperando le tendenze filo-spagnole fatte proprie, in ossequio alla politica del padre Carlo Emanuele I, da Tommaso di Carignano e dal Cardinale Maurizio, fratelli di Vittorio Amedeo I, con la spiccata propensione filo- francese che resse l’azione politica del Duca e della consorte. Vittorio Amedeo I morì nel 1637, colto da malore dopo un banchetto a Vercelli, dando adito a discussioni infinite sulle reali cause della morte, dalle fonti ufficiali attribuita alle conseguenze di una malaria trascurata e dagli appassionati di congiure di palazzo ad un avvelenamento occorso durante la festa e confermato, si sostiene, dalla somiglianza di sintomi accusati dal Marchese Villa e dal Conte di Verrua, il quale in effetti passò a miglior vita a pochi giorni di distanza dal suo Duca. I notabili che assistettero alla morte del sovrano ne certificarono altresì la volontà di riconoscere a Cristina di Francia la Reggenza del Ducato sino a che Francesco Giacinto, primogenito della coppia, o il più forte Carlo Emanuele (che poi divenne II) non avessero raggiunto la maggiore età. Cristina così resse il governo del Piemonte in nome e per conto del figlio, acquisendo il titolo di “Madama Reale”, avvalorando in tal modo la pretesa del marito di fregiarsi del titolo regio. Lo stesso Duca s’era infatti proclamato pretendente legittimo al trono reale di Cipro, lasciato formalmente in eredità ai Savoia da Anna di Lusignano, figlia di Janus, Re di Cipro, Gerusalemme e Armenia, a seguito del suo matrimonio con Ludovico di Savoia Acaia. Le ostilità tra l’esercito franco-sabaudo e quello spagnolo si manifestarono presto, approfondendo le divisioni politiche che contrapponevano la Madama Reale ai due cognati, i principi filo-spagnoli Tommaso e Maurizio. I Torinesi ripartirono equamente i loro consensi dando vita a due fazioni, i Principisti e i Madamisti, che rendevano riconoscibile apertamente la loro appartenenza politica dal colore della coccarda che veniva esibita: azzurra quella dei Principisti, bianca e azzurra quella dei Madamisti. La capitale, temporaneamente invasa dalle truppe spagnole, patì nel 1640 un lungo assedio portato dai Francesi comandati dal generale D’Harcourt. Nel maggio di quell’anno, la soldataglia francese cominciò a penetrare in città seguendo il corso del Po e giungendo in prossimità del borgo di barcaioli che sorgeva accoccolato tra il fiume e la collina, ombreggiato dalla sagoma protettiva di Santa Maria del Monte. Circa 400 popolani, terrorizzati dalla ferocia francese acuita dalla tenace resistenza opposta dai Torinesi alla loro avanzata, cercarono rifugio nel Convento ma l’idea di sfuggire alle violenze del nemico ponendosi al riparo d’un luogo sacro si rivelò illusoria. La masnada di soldati francesi, divelto il portone d’ingresso alla Chiesa, prese a trucidare chiunque capitasse a tiro, vecchi o bambini, risparmiando soltanto i frati che assistevano impotenti al massacro. Un soldato s’avvicinò all’altare e dissacrò il tabernacolo impadronendosi della pisside d’argento: d’improvviso una fiammata si propagò dall’altare ustionando il viso del soldato sacrilego e mettendo in fuga lui e i suoi compari di saccheggio. Quell’evento fu considerato opera di una forza soprannaturale e ne fu anche ufficialmente riconosciuta la natura miracolosa, ma non mancano gli scettici. Antonio Manno, nel suo Diario dell’Assedio del 1640, ne contesta l’imputazione all’intervento divino ravvisando invece la causa della fiammata nello scoppio di una fiasca di polvere da sparo. Carlo Botta, storiografo filo- francese, si rifiuta di riconoscere la natura miracolosa dell’evento sostenendo che un fatto di tale impatto psicologico, se fosse stato vero, avrebbe provocato la fuga dell’intero esercito francese da Torino e non solo di pochi soldati indisciplinati e sanguinari. Il ricordo del “Miracolo del Monte”, segno simbolico dell’ira divina scatenata contro la tracotanza sacrilega della soldataglia francese, si accompagna ad altre circostanze misteriose tra le quali spicca per clamore la manifestazione occasionale di una presenza impalpabile che, aleggiando attorno al Monte, si mostra alla percezione visiva delle coppie di innamorati che qui trovano ispirazione romantica. E’ probabile che, osservandoli, riviva i terreni tormenti d’amore: è il Conte Filippo San Martino d’Agliè, poeta, musicista e coreografo, tanto apprezzato per le sue doti diplomatiche e di comando da essere nominato Governatore della Cittadella di Torino nel 1638. La lontananza di Vittorio Amedeo I dalla consorte facilitò l’avvicinamento sentimentale tra la Madama Reale ed il colto esponente della nobiltà piemontese, facendo presagire alla fantasia pettegola dei cortigiani l’avvio di un’appassionante storia d’amore. Nel 1989, durante alcuni lavori di restauro, si scoprirono nel giardino del convento i resti mortali d’un uomo che riposavano accanto a due fornelli di pipa in ceramica bianca d’ottima fattura che fungevano da corredo funerario rimandando simbolicamente ad una passione coltivata in vita dal defunto. Quei resti sono stati identificati come appartenenti al Conte Filippo San Martino d’Agliè e la presenza dei due fornelli di pipa ne avvalora l’attribuzione, richiamando alla memoria il famoso ballet de cour intitolato “Il tabacco”, composto dal nobiluomo e messo in scena il I marzo 1650. L’intreccio della trama è completamente asservito all’esaltazione delle virtù del tabacco, attraverso il racconto degli abitatori di un’isola esotica che ne tessono gli elogi evocando in scena vari personaggi in rappresentanza delle diverse nazioni che hanno contribuito alla diffusione dell’uso del tabacco, pratica tanto amata dal Conte da essersi fatto seppellire accanto a due fornelli di pipa…
Anche il basamento del Monte nasconde la traccia di eventi lontani che, occasionalmente, emergono dalle nebbie del passato affacciandosi alla nostra memoria. La strada che conduce alla sommità doveva essere in origine costellata di piloni votivi a ricreare una Via Crucis lungo la salita ma quel progetto non andò a buon fine. Si pose mano, invece, al rifacimento del percorso rendendolo percorribile alle autovetture e proprio grazie alla realizzazione del cantiere di scavo, riaffiorarono dalla spessa coltre di terra che li aveva sepolti i resti mortali di decine di persone che, probabilmente, caddero vittima delle pestilenze che attanagliarono il Piemonte tra la fine del Cinquecento ed il 1630, riducendo sensibilmente la popolazione e costringendo le autorità a decidere se bruciare i cadaveri degli appestati o se accatastarli in fosse comuni, cospargendoli di calce viva. La seconda opzione prevalse e di quell’antica piaga che lacerò la città decimandone gli abitanti, ogni tanto, affiora un piccolo frammento invitando l’animo a prestare ascolto all’invocazione dolorosa di lutti e sofferenze che sopravvivono ai secoli.